Una volta i mestieri si trasmettevano in famiglia, di padre in figlio (o figli), di madre in figlia. Si praticavano nelle case; si vedevano. In città e in campagna. Mia nonna, nella bassa montagna abruzzese, tesseva, al telaio di legno, con i pettini di canna, coperte dai disegni geometrici, molto belle. A Torino, in piazza Emanuele Filiberto, dietro Porta Palazzo, qualche volta gli artigiani si chiamavano tra loro non col nome proprio ma con quello del mestiere -menusieur, tapisseur- come ora, forse, solo in Sud Tirolo. C’era un negozio di arrotini industriali, con i grembiuloni neri, forse di cuoio, che lavoravano per le macellerie, per chi usa i coltelli in grande, e che se gli portavi un coltello da arrotare te lo recensivano: ti spiegavano pregi e difetti. C’era un continuo muoversi di grandi lame, lo stridore delle mole.
In campagna, nel chierese, quando mi sono trasferito, era ancora diffuso l’allevamento dei vitelli della coscia, macellati a due anni: carne rossa. Anche la macellazione e la vendita erano locali. C’era agricoltura per l’autoconsumo, praticata da contadini proprietari di grande mestiere (e di grande cortesia verso i nuovi arrivati), di quelli che fanno innesti favolosi, proprietari di ciliegi stupendi, giganteschi, impossibili economicamente, perché difficili da raccogliere -adesso hanno le piante ad altezza d’uomo o quasi. Ti prestavano scale lunghissime e flessibili, sempre meno agevoli col passare degli anni, e ti invitavano a raccoglierle a volontà. Regalo di ciliegia su pianta.
Poi è sembrato che quel mondo finisse. L’allevamento alla vecchia maniera, senza mangimi proteici, è diventato costoso e poco redditizio. Molte stalle hanno chiuso. Soprattutto, malgrado i matrimoni misti con immigrati (e immigrate) veneti, friulani e meridionali, non tutti (o tutte) si sono sposati. Qualche volta i figli e le figlie hanno deciso di fare lavori meno faticosi di quelli dei padri, perché la terra è bassa e non si lascia raggiungere senza fatica, anche se ora ci sono le macchine. Alcune famiglie stanno sparendo. Ma altre si moltiplicano. Non ci sono solo i falegnami, i carpentieri metallici, i saldatori.

Nuove famiglie, vari mestieri
Dall’altra parte della strettoia dietro casa mia c’è un blocco di case che girano le spalle alla strada (hanno cioè sulla strada pareti senza finestre, come del resto casa mia). Nella più grande abita un contadino mio coetaneo, molto bravo, molto gentile con me, per cui ho molta stima e affetto, che è diventato vecchio ed è rimasto solo. Non si è mai sposato. Nelle case più piccole, connesse alla cascina più grande, come accade nei paesi, hanno abitato un tappezziere e un professore. Il tappezziere, che aveva lavorato in città, riparava poltrone ai vicini a prezzi da regalo. Il professore suonava il violino. Non sono abbastanza competente da dire se fosse veramente bravo; certo suonava professionalmente. Nel silenzio della campagna, anche quello era un regalo. Tutti e due sono morti. Il tratto di strada stretta sembrava destinato a diventare un deserto.
Poi nelle case rimaste vuote dietro il muro cieco, ristrutturate, è venuta ad abitare, con qualche parente anziano, l’ultima generazione dei proprietari, di cui fanno parte due madri con due e tre bambini rispettivamente. I contenitori della raccolta differenziata si riempiono di plastiche; dalla strada si sentono i rumori dei bambini che si rincorrono, come scoiattoli, nel loro cortile interno. Di cosa vivono? Di una porcilaia industriale, di cui si sentono da anni i rumori e gli odori; della terra che posseggono e che in parte coltivano a orto: un misto di orticultura e allevamento. Una tabaccheria e una panetteria che hanno gestito in passato non ci sono più. Le madri badano soprattutto ai figli.
Al mercato della frutta e verdura di Chieri ci sono, come altrove, famiglie contadine che vendono direttamente ciò che coltivano, negli orti che attraverso tutte le volte che vado in città, di cui ammiro la geometrica e variabile armonia. Ci sono banchi organizzati come negozi, che nei giorni di mercato impiegano studenti precari. Ci sono famiglie allargate con più generazioni al banco. Ci sono quelli che parlano solo in dialetto e quelli che usano il dialetto come vezzo. In un giorno di grande freddo di un paio di anni fa, col mercato semivuoto e le verdure coperte con la plastica per non farle avvizzire, mi son trovato a far osservare a una signora di una certa età l’ovvietà che l’avevano lasciata ...[continua]

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