Pubblichiamo l’intervento che Clotilde Pontecorvo ha tenuto al seminario Fare scuola dopo Auschwitz organizzato dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Modena.

Era il 4 giugno del 1944, a piazza Farnese, a Roma, verso le nove di sera. Poche ore prima erano passati, sotto le finestre di un convento di suore svedesi, soldati tedeschi in ritirata. Noi eravamo una famiglia allargata di 25 persone, ospiti del convento da nove mesi. Appare una jeep da via del Mascherone, accanto a Palazzo Farnese. Si apre per la prima volta dopo tanto tempo il portone. A Roma c’era il coprifuoco, perché c’erano i bombardamenti. Un soldato dice: “Nous sommes les soldats de De Gaulle”.
Il palazzo si illumina. Io avevo sette anni. Non so più se l’ho visto veramente o se me lo hanno raccontato. So che ne ho un ricordo indelebile, stampato nella mia memoria, insieme alle vicissitudini della fuga nella campagna toscana, in un podere sperduto e senza nome, presso il quale ci eravamo rifugiati per quindici giorni. Al ritorno avventuroso a Roma -con carte false che ci aveva dato un “Commissario della razza” di Siena (e che gli abbiamo poi restituito: i successivi documenti ce li fece il Partito d’Azione)- ricordo il trasporto dalla stazione alla casa della signora che ci ospitò e che per questo aveva rischiato moltissimo: una stanza per nove persone. E ricordo soprattutto che mi preoccupava moltissimo la carretta tirata da un cavallo con cui portammo le nostre masserizie. Quando poi -più grande- ho studiato la Rivoluzione Francese, ho sempre pensato che quella era la carretta con cui arrivavano i condannati a morte.
Il 5 giugno sono finalmente arrivati i tanto attesi e sospirati Alleati. La mia prima richiesta a mia madre è stata: “Adesso, mamma, posso dire il mio nome?”

La Liberazione per me è legata alla ripresa dell’identità, a non doverla nascondere, al non dover fingere di essere cattolica, con tanto di partecipazione alla messa, ai vespri, con frequenza della chiesa, cosa che facevamo anche con quella capacità che sanno dimostrare i bambini nell’adattarsi a questo tipo di richieste.
Ricordo che una volta (in quel periodo la mia famiglia ritenne opportuno mandare me e una mia cugina da altre suore che si trovavano dall’altra parte del ponte), tornando a casa, ci fu un bombardamento -eravamo allenati anche a questo- e una suora ci chiese se avevamo avuto paura. Mia cugina che aveva sette o otto mesi più di me e che quindi era più pronta rispose: “No. Abbiamo detto un’Ave Maria”.
In realtà recitavamo delle Ave Maria, ma, come facevano e fanno tutte le altre bambine, insieme le trasformavamo, apportavamo dei cambiamenti e diventavano filastrocche. Era un gioco infantile di difesa. Queste esperienze sono nulla rispetto a quello che hanno rischiato e sofferto altre persone, eppure se ora, come genitore -forse io potrei anche essere nonna- dovessi chiedere a un figlio o un nipote di nascondere la propria identità, di fingerne e dichiararne un’altra, mi sembrerebbe una cosa difficile ed angosciosa.
Quelle due frasi, quella pronunciata dai soldati francesi giunti in jeep a Palazzo Farnese, ambasciata di Francia -Nous sommes les soldats de De Gaulle- e quella pronunciata da me per richiedere la verità su di me, la verità su di noi -Posso dire chi sono?- sono state per me una seconda vita, sono state la possibilità di ritornare ad essere me stessa.
Ovviamente adesso vedo queste cose con l’occhio dell’adulto. Quando le ho vissute da bambina non erano così terribili, erano un gioco. Ero molto più preoccupata del fatto che un cugino che aveva due anni e mezzo -che attualmente insegna in una università americana- non sapesse ancora né leggere né scrivere, non avesse imparato ancora queste cose fondamentali.
In qualche modo come bambini si vive e si sopravvive. Ricordo, per esempio, che nelle nostre esplorazioni scientifiche con una cugina che aveva la mia età trovammo dei deliziosi animaletti che mettemmo in una scatolina che portammo ai genitori e che furono identificati come cimici. I bambini riescono anche in una situazione di questo tipo a fare un gioco di esplorazione scientifica.
E anche se non ho subìto traumi, se non ho racconti drammatici ricordo benissimo quell’anno. Le mie figlie dicono sempre: “Come fai a ricordarti di ogni giorno?”. Mi ricordo ogni giorno di quell’anno perché noi bambini partecipavamo molto alla speranza e all’attesa della Liberazione. Anche se nutrivo personalmente molta paura per i bombardamenti ed ero molto meravigliata che gli adulti fossero felicissimi quando gli aerei arrivavano su Roma perché voleva dire che avanzava la Liberazione.
Nella distanza, nel ripensamento, ho capito che questa esperienza ha marcato profondamente la mia identità. La mia identità di persona e, forse anche di più, la mia identità di insegnante. Certe volte mi è difficile stabilire dove cominciano e dove finiscono le due identità perché le sento molto radicate.

Chi di noi è uscito vivo dalla guerra, dal rischio di sterminio, chi ha sentito racconti in famiglia, chi li ha sentiti anche riportati, credo che non possa non interrogarsi oggi. Io l’ho vissuto nella realtà, ma ho anche potuto ripensarlo molto dopo, forse solo dopo che ho iniziato ad insegnare. Quando ho iniziato ho subito pensato che lo dovevo dire ai miei studenti. Sentivo l’esigenza profonda e il dovere di dichiarare la mia identità come se essa fosse soffocata. Non avere nome, non avere il proprio cognome, avere documenti falsi, doversi nascondere, dovere poi celare e fingere, era qualche cosa che non potevo più ammettere. E in questo senso, come ho detto, sento profondamente il nesso fra la mia identità personale e la mia identità di insegnante.
Ho raccontato questo piccolo episodio, una narrazione minima, perché vorrei dimostrare una prima cosa: il nesso fra identità e narrazione. Ho detto che non so se certe cose le ho viste o le ho sentite raccontare. Ci sono dei miei ricordi di cose che “so” di non avere visto, perché proprio per la mia esperienza di vita ho perso mio padre prima di nascere e quindi non l’ho mai visto. Però ho l’impressione di averlo visto, perché mi è sempre stato raccontato da mia madre, dai miei fratelli più grandi, dai miei parenti.
La necessità di narrare, di far narrare, di riscrivere la propria storia, non credo che riguardi solo chi ha vissuto la guerra o l’ha più profondamente sofferta o che ha vissuto lo sterminio, o ancora chi lo ha subìto attraverso le persone che gli stavano più vicino e neanche, soltanto, i loro figli o i loro nipoti: credo che sia un discorso più generale. E’ un discorso che riguarda la memoria.

Accanto alla storia che si studia sui libri, accanto a quei modi che riteniamo più validi per rielaborare criticamente la storia, nella storia dell’Olocausto, nella storia della Shoah, nella storia dello sterminio, nella storia del dominio nazista, la memoria è essenziale per la ricostruzione di questa vicenda. La memoria è per definizione legata alla vita delle persone, al vissuto, all’individualità. E’ legata al recupero di quella individualità che il sistema nazista voleva eliminare. Per questo è così importante che la memoria sia di nuovo al centro come un’attività continua del ricordare. In realtà io lego la memoria alla costruzione dell’identità: non all’identità solo di chi ha subito questa esperienza, ma all’identità di tutti. Perché credo che nel fondo del disegno di sterminio ci fosse anche l’idea di definire la propria identità attraverso l’eliminazione degli altri. E questo mi sembra un elemento assai pericoloso che si è fra l’altro ripresentato molto inaspettatamente in questi ultimi dieci anni. Forse si era sempre ripresentato, ma noi non lo avevamo riconosciuto, almeno come ne siamo consapevoli oggi.
La memoria è l’elemento che costruisce la nostra identità di individui e ci fa partecipi di ciò che ci accomuna agli altri, ci fa -come dice Sandro Duranti- “uguali, ma non troppo”, perché anche nell’identità del nostro gruppo noi manteniamo la nostra individualità, il nostro modo di essere con un’identità personale.
Penso ad una pagina molto bella di Martin Buber, il quale descrive in modo assiomatico ed essenziale perché gli uomini non siano mai tutti diversi al di là di ciò che noi sappiamo sul valore della diversità genetica, della diversità culturale. Buber dice che, se non fossimo diversi, non ci sarebbe ragione che un’altra persona sia al mondo. Un detto ebraico dice che chi salva una vita salva il mondo e chi distrugge una vita distrugge il mondo. A partire da questo, Buber analizza il valore dell’individualità: è proprio perché ciascuno è irripetibile che ciascuno è il mondo. Afferma anche che la differenza fra Dio e gli uomini è che gli uomini hanno una forma che crea tutte cose uguali mentre Dio usa una stessa forma per creare esseri sempre diversi. Si tratta di una forte insistenza sull’individualità.

A me sembra che, nell’individualità, i gruppi, le comunità rivestano un ruolo fondamentale. In questi ultimi anni ho studiato molto le famiglie, le interazioni familiari. Sto studiando come genitori e figli parlano fra loro quando sono insieme riuniti a tavola. E’ un elemento molto consolante della cultura italiana l’importanza che ancora questo ha per molte famiglie. Non è stato difficile per noi trovare famiglie che mangiano regolarmente insieme. A me sembra che è dentro la famiglia che cresce l’identità: un modo di crescere di ciascuno che si definisce in rapporto agli altri per somiglianza e per differenza. Mi ha colpito -anche perché in questi ultimi tempi ho condotto uno studio comparativo con alcune famiglie americane- come emerga in una sola conversazione a tavola delle nostre famiglie l’identità di essere italiani, l’identità di questo nostro paese ovviamente con tutte le differenze possibili nel modo di esserlo. Però ho capito quanto sia importante, nella costruzione dell’identità familiare, non solo il mangiare insieme e il cibo, non solo la trasmissione delle tradizioni del mangiare, ma il piacere dei genitori di dare piacere ai figli attraverso il cibo, il tener conto del gusto, del temperamento individuale, in un certo senso l’importanza dell’individualità che appunto passa anche attraverso queste cose.

E d’altra parte la famiglia è ancora il luogo privilegiato della comunicazione verticale, della comunicazione fra le generazioni, dove si può costruire una memoria della propria identità come costruzione delle proprie matrici. In famiglia ci si ricorda, ci si racconta, ci si discute. Tutto ciò si lega molto a problemi che sono problemi presenti ma anche passati: si racconta quello che è stato, anche il passato più presente, quello più immediato. La memoria familiare, generazionale, mi sembra un elemento importantissimo per il mantenimento degli aspetti positivi della memoria. Credo che allora sia altrettanto importante nella nostra opera di educatori mantenere in rilievo il legame che la memoria ha con i testimoni diretti. Ovviamente ormai i testimoni diretti sono pochi perché io, che adesso ho i capelli bianchi, a quell’epoca ero una bambina.
A volte penso che tante cose le ho veramente capite come potevano capirle i bambini e quelli che le hanno vissute sono ormai delle persone anziane. Quindi mi sembra che per noi questa sia forse l’ultima possibilità: siamo l’ultima generazione a raccogliere in senso lato delle testimonianze reali e dirette.

Considero questo aspetto molto importante per renderci conto che l’identità, che è stata in qualche caso negata -si voleva sopprimere- corre ancora oggi rischi molto gravi.
Mi sembra che il progetto nazista si sia rivelato come un disegno di costruire al negativo la propria identità. Come se l’identità di gruppi, di etnie o di religioni si possa costruire soltanto eliminando gli altri fisicamente. Oggi non possiamo più ripensare Auschwitz e l’Olocausto senza ricordare la pulizia etnica, gIi sterminii, le uccisioni che continuamente avvengono nel mondo. E mi pare che questo problema non sia solo legato a fenomeni isolati: è un fenomeno che persiste e che è diffuso. D’altra parte l’eliminazione che è stata perpetrata con la Shoah ha cominciato a distruggere prima le comunità, i gruppi, poi le famiglie attraverso la separazione e, poi, l’umanità degli uomini per arrivare, infine, alla loro eliminazione fisica. Mi sembra che questo processo corrisponda al processo all’inverso che noi vorremmo rimettere in moto, che vorremmo ottimisticamente realizzare, nella scuola e nelle generazioni future.

Certo, come insegnare Auschwitz? E’ un problema difficile. Perché per certi versi è indicibile, è difficilmente riducibile alle nostre normali categorie di interpretazione storica. Non è in un certo senso spiegabile. Sono molto preoccupata quando qualcuno lo spiega perché spiegare vuol dire anche giustificare. Fra la spiegazione e la giustificazione il passo è molto breve. Le nostre spiegazioni nascono da giustificazioni. Spiegare significa immettere un evento in una rete che dà un senso. Ma Auschwitz non ha un senso. Ci vuole certo una spiegazione, ci vuole una ricostruzione storiografica, ma questa riflessione è inevitabilmente legata alla comprensione delle persone che l’hanno vissuto, deve passare attraverso la storia delle persone. Io vedo in questo argomento la necessità di una integrazione molto profonda fra memoria e storia. In fondo la critica storica ci ha abituato ad abbandonare la memoria, o almeno a metterla da parte -anche se oggi c’è una grande rivalutazione della memoria- ma a me sembra che la memoria sia altrettanto importante che la storia.

C’è un tema che viene spesso sollevato quando si parla di questo argomento: il tema dell’unicità o della comparazione. E’ un evento unico? E’ un evento comparabile? Sappiamo che la comparabilità ha significato anche la strumentalizzazione dei revisionisti, cioè di coloro che hanno detto non essere vero che erano state uccise tutte quelle persone, che c’era stato un programma di sterminio, di coloro che sostengono che a morire, e di malattia soprattutto, sono state poche migliaia di persone. Siamo molto preoccupati dalla comparabilità di chi ci dice che altre cose sono successe ed altrettanto gravi. E d’altra parte è anche vero che noi non vogliamo porre questo evento al di fuori della storia perché significherebbe rendere possibile la sua riproduzione. E’ quindi un rischio vederlo come un evento unico, così come è un rischio vederlo come uno dei tanti sterminii. Certo non va equiparato. Però non va nemmeno isolato. Credo che su questo vi sia un conflitto profondo, di cui fra l’altro sono stata recentemente testimone: I’Unione delle Comunità Ebraiche italiane ha organizzato un convegno sul trauma psichico, a cui hanno partecipato Dina Wardi e Jossia Tab da Israele e Donald Cohen dagli Stati Uniti. In particolare Cohen ha ricordato il problema dell’unicità e ha sottolineato, da un punto di vista ebraico, la necessità di vedere il rischio dell’eliminazione dell’altro come sempre presente, l’impossibilità, cioè, di guardare a questo fatto in termini soltanto unici. Ha ricordato i venti milioni di neri che sono morti nel trasporto dall’Africa agli Stati Uniti, una cosa di cui non ho mai sentito parlare i molti buoni amici, e anche molto democratici, americani. Ma forse il conflitto per noi è così grande non già perché, a differenza di altri sterminii, questo fu così organizzato e sistematico, ma perché è avvenuto in un paese così civile, all’avanguardia della cultura, un paese che ha dato alla cultura europea e non europea dei contributi così straordinari. E’ questo il contrasto, non è il fatto che questo si sia verificato nel modo in cui si è verificato.
Questo a me sembra un tema che non si può risolvere, così come non si risolve il dilemma della indicibilità e della necessità di spiegarlo. Sono profondamente convinta che non possiamo non tenere conto di questi due temi, fatte salve ovviamente le critiche al revisionismo sciocco e quanto mai pericoloso. C’è un conflitto, o se vogliamo un dilemma. E il dilemma è per definizione qualcosa che non si risolve, con cui ci si confronta continuamente e che ci deve guidare nell’analizzare, nel capire, nel fare capire.

Come parlare ai giovani che ci sembrano tanto diversi da noi? Credo che occorra partire dai loro gusti, dalle loro idiosincrasie spesso antiretoriche, dalle loro pre-conoscenze, dai loro pregiudizi. Con questi ci dobbiamo confrontare. Dobbiamo farli esplicitare, dobbiamo riconoscerli anche come senso comune.
"Se è successo questo agli ebrei, gli ebrei qualcosa devono avere fatto". Queste sono battute che si sentono dire. "Se d’altra parte sono molto potenti, avevano potere economico...", l’ho sentito dire poco tempo fa da una persona che lo diceva in buona fede. Ed ho capito il rischio che è sempre palese in queste affermazioni.
C’è un altro aspetto che non dobbiamo dimenticare: l’insegnamento del disprezzo che per duemila anni la Chiesa ha favorito nei confronti degli ebrei. E’ un tema che è stato affrontato magistralmente da Julie Sac subito dopo la Liberazione in un libro che parte dalla ricostruzione storica e non storica (e comunque simbolica) della morte di Gesù; quindi in qualche modo dall’accusa di essere il popolo “deicida”.
Tutto ciò è profondamente radicato. Le cerimonie della Pasqua sono legate a questo ricordo. E’ molto difficile per delle persone semplici, senza mediazione culturale, fare delle distinzioni. E’ vero che è stata fatta molta strada in questa direzione da Giovanni XXIII quando proprio per diretta influenza del libro di Julie Sac, attraverso l’attività della Società Ecumenica, attraverso Maria Vingiani si aprì a questo problema, ne capì l’importanza.
Credo però che qui ci sia un lavoro da fare con i giovani che deve anche affrontare questi temi, che deve partire anche da questi pregiudizi, che deve tenere conto anche di queste modalità di porsi. Ed è chiaro che in questo mi sembra fondamentale il ruolo della scuola.

La scuola è una sede privilegiata non solo -come diciamo sempre- per la costruzione degli apprendimenti di base, ma per la costruzione dell’identità. Noi oggi rivalutiamo il ruolo della scuola come una sede dove si costruisce una comunità più ampia. E, d’altra parte, siamo sempre più convinti che si apprende quello che è coerente con la propria identità. Non un’identità rigidamente definita una volta per tutte, ma un’identità flessibile che entra in relazione con quella degli altri. Quindi come costruzione di una comunità di discenti, studenti-insegnanti come discenti, perché gli insegnanti che fanno bene il loro mestiere sanno molto meglio di me che si insegna volentieri perché si impara, altrimenti non si insegna volentieri e non si insegna bene.

Ecco, la scuola è un luogo di incontro privilegiato fra uguali (di età), ma diversi. Oggi forse più diversi di quanto non fosse in precedenza.
E’ un luogo di mediazione. Essa deve riprendere in pieno il suo ruolo per un’educazione civile, un’educazione morale. Non moralismo evidentemente, nessuno di noi vuole prediche, nessuno di noi vuole l’indottrinamento, ma nessuno di noi vuole nemmeno la delega di questa funzione, la delega per esempio alla famiglia, la delega al sacerdote, la delega all’insegnante di religione che in qualche caso ha sopperito a questa esigenza, a questa richiesta.
Credo che la scuola possa e debba essere sempre di più un luogo di costruzione di valori condivisi, che hanno una storia, un’evoluzione, che hanno bisogno di essere analizzati conoscitivamente, ma che hanno soprattutto bisogno di essere praticati.
La scuola non può più essere oggi eticamente neutrale.
Ricordo qualche anno fa di avere fatto un incontro sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia al quale ha partecipato anche Cesare Luporini il quale era meravigliato di questa dichiarazione. Diceva che quando andava a scuola - si riferiva agli anni Trenta -non sapeva nemmeno che cosa gli insegnanti pensassero, c’era un principio -come dire?- di neutralità. Questo secondo me ora non è più possibile. Lui era meravigliato che io sentissi sempre il bisogno di dichiarare la mia identità. Ma forse dal piccolo aneddoto che ho riportato all’inizio di questa conversazione voi capite che questa è proprio una necessità non solo mia, è un modo di presentarsi. Non credo che la scuola possa essere neutrale. Non vogliamo una scuola di parte, temiamo molto una scuola che indottrina, ma aprire la scuola a un’analisi molto attenta di quelli che sono i nodi di questa educazione. Non è materia di un insegnamento, è un compito generale di educazione morale e civile, potremmo anche dire di educazione alla cittadinanza.

Un problema cruciale è quello del rapporto tra conoscenze e valori . Non si insegnano in realtà valori al di fuori di conoscenze. E, all’opposto, non si insegnano conoscenze senza valori. E uno dei valori importanti che la scuola deve trasmettere è quello dell’onestà intellettuale, dell’autonomia di giudizio, del gusto di capire, della capacità di cambiare idea, della capacità di trasformarsi: questi sono valori che sono legati al conoscere.
Ci sono anche altri valori che più direttamente ci impegnano sul piano morale: penso ad un aspetto che ci riguarda profondamente come italiani. Ho detto prima che dal confronto con le famiglie americane emerge la solidità psicologica della struttura familiare italiana e la forza della tradizione in cui molto importante è il modo in cui i genitori si sostengono a vicenda nell’educazione dei figli. Però noi sappiamo che siamo un paese di solide virtù individuali, famigliari, qualcuno ha detto “familistiche” -troppa famiglia- però siamo un paese di scarse virtù collettive (ovviamente in generale ed a confronto con altri paesi). Credo che questo debba essere un tema su cui la scuola possa e debba intervenire.

Cerco di concludere. D’altra parte questo è un tema che non si può concludere, si può solamente aprire. In quali forme può la scuola rispondere a questa esigenza? Come fare scuola ricostruendo una memoria? Come fare scuola ricostruendo una storia, ma insieme aprendosi a diverse identità e dando la possibilità a ciascuno di creare la propria? Facendo pratica di democrazia, pratica di incontro, pratica di convivenza. Ricordo di avere usato diversi anni fa un libretto che Guido Calogero, che è stato mio professore all’università, aveva scritto nel ’45. Si intitolava L’Abc della democrazia: i miei studenti lo discutevano con molto interesse lavorando autonomamente o a gruppi. E’ una piacevolissima lettura, ma è importante praticarla. Credo che ricorrenti fenomeni di organizzazione autonoma dei giovani -occupazione, autogestione, ecc. - in fondo manifestino un desiderio di praticare la democrazia.
Noi stessi l’abbiamo imparata praticandola, non l’abbiamo certamente imparata a scuola. Nella scuola che noi frequentavamo questo non era affatto possibile, l’abbiamo imparata nei gruppi politici, nei gruppi giovanili, sbagliando anche, perché queste cose si imparano facendo, si imparano sbagliando. Non c’è altro modo.
Eppure mi sembra che questa sia l’unica forma di educare alla responsabilità, ad assumere il proprio ruolo nel mondo, a rispettare il diverso, a confrontarsi con il diverso. Ci si potrebbe chiedere quando. Io direi subito. Ora. Questo è possibile - fin dalla prima infanzia. E sappiamo che i bambini molto piccoli, già nelle prime fasi dello sviluppo, sono disposti ed anche impauriti dal diverso. Dobbiamo quindi metterli in condizione di ritrovare nel diverso il simile a se stesso, perché la definizione di noi stessi passa attraverso questo rapporto di differenza e di somiglianza.

Concludo con un Midrasch.
Il Midrasch è un racconto che serve ad interpretare il testo biblico. Nella tradizione ebraica il testo biblico non si legge soltanto, si legge e si rilegge, e soprattutto si interpreta. E questa interpretazione non è mai conclusa. E’ quella che si dice una lettura infinita. Questi racconti, che si costruiscono, sono ricostruzioni fantastiche che coprono in qualche modo i vuoti del testo, sono quelli che hanno permesso a questa cultura di sopravvivere, perché l’hanno continuamente adattata ai bisogni, alle necessità, alle trasformazioni.
E’ un Midrasch che riguarda Abramo.

Abramo discute con Dio della distruzione di Sodoma e Gomorra. Dio aveva mandato un angelo per dire: “E’ un popolo totalmente traviato, irriducibile. Bisogna distruggerlo”. Abramo discute a lungo. Chiede che cosa farà Dio se ci sono cinquanta giusti. “Se ci sono cinquanta giusti io non distruggerò Sodoma e Gomorra”- è la risposta. E Abramo: “E se ce ne sono quaranta?”. “No, non distruggerò”. “Trenta?” ~ "No non distruggerò". Abramo scende ed arriva a dieci.
Il Midrasch dice che Abramo è anch’egli colpevole, responsabile della distruzione di Sodoma e Gomorra. Perché Abramo poteva salvare Sodoma e Gomorra? Perché non si può scendere al di sotto di dieci. Dieci è il minimo perché ci sia una comunità; perché un’identità ha bisogno di una comunità. Questo numero dieci ha in ebraico un valore particolare.
Ma perché Abramo si è così impegnato a discutere con Dio? Non tante persone hanno discusso con Dio come ha fatto lui!
Ha cercato di fare il possibile fino in fondo? In realtà Abramo è responsabile, perché a Sodoma c’era Lot e la moglie (e sono due), c’erano le tre figlie (e si va a cinque), c’erano i mariti delle figlie (e quindi si arriva ad otto), c’era l’angelo che era andato ad annunciare la distruzione (e fa nove). Mancava un giusto: Abramo doveva andare a Sodoma e Gomorra!

Fiorella Anticoli, di anni 12. La bambina fu catturata durante la razzia di Roma con la madre, i fratelli e le sorelle, i nonni, le zie e gli zii. Fu la sola che sopravvisse ad Auschwitz e nel novembre del 1944 fu evacuata dai nazisti a Bergen-Belsen. Le truppe americane che liberarono il campo nell’aprile del 1945 fecero circolare una foto di gruppo che la includeva. Il padre Marco vide la foto a Roma e sperò che Fiorella fosse salva; invece era morta in un ospedale di Bergen-Belsen il 31 maggio 1945. (CDEC, Milano).