Pubblichiamo l’intervento, dal titolo “I fondamenti democratici del mutualismo”, di Nadia Urbinati al convegno Il mutualismo, la storia e il presente, tenutosi a Forlì il 27 maggio scorso. Il convegno era propedeutico a un appuntamento, in gennaio, incentrato sull’attualità del mutualismo oggi, a partire da temi come il welfare locale e il comunalismo, la sussidiarietà e l’economia solidale. L’intervento di Nadia Urbinati è il primo di una serie di materiali che pubblicheremo nei prossimi numeri, in preparazione di questo appuntamento.

Il mutualismo è l’anima profonda della democrazia. Storicamente è proceduto insieme al processo di democratizzazione, tanto che chi voglia capire il secondo non può non fare anche la storia del primo. Non dunque “infanzia” ma maturità del movimento democratico. Il fare insieme per libera scelta, associandosi per uno scopo condiviso e scelto autonomamente, è quanto di più pubblico e volontario ci possa essere. Rispondendo alla domanda posta dagli amici di Una città se il mutualismo sia “infanzia del movimento operaio e democratico o sua anima profonda e dimenticata”, direi che la seconda ipotesi è quella che meglio descrive il fenomeno del mutuo aiuto o cooperativo. Il mutualismo è la sintesi pratica dei due ingredienti fondamentali che compongono la democrazia: l’eguaglianza come reciprocità o eguale riconoscimento di persone che sono diverse e perché sono diverse; libertà come premessa della moralità e della vita politica. Della moralità in quanto la libertà è la condizione perché ci sia scelta e responsabilità (e pertanto l’attesa di un dovere degli altri da parte nostra e viceversa); della vita politica in quanto la libertà è la condizione perché decisione e obbedienza interessino tutti egualmente (il cittadino come artefice e come soggetto dell’obbligo giuridico), e anche la condizione perché ci sia autonoma partecipazione alla vita della collettività, di ciascuno secondo la propria volontaria decisione e anche la propria vocazione.
Il primo autore moderno ad aver colto con straordinario acume la relazione tra associazioni volontarie e democrazia è stato Alexis de Tocqueville.
“Gli americani di ogni età, di ogni condizione, di ogni tendenza, si uniscono continuamente. Essi non hanno solamente associazioni commerciali e industriali cui tutti prendono parte, ma anche di mille altre specie: religiose, morali, serie, futili, generali, particolari, grandissime, piccolissime; gli americani si associano per organizzare feste, fondare seminari, costruire alberghi, fabbricare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi, come per fare ospedali, prigioni, scuole”.
L’associarsi per risolvere problemi collettivi o l’aiutarsi l’un l’altro all’occorrenza ha un significato politico, oltre che civico, di grande rilievo, sia in senso positivo -per le qualità che presume e mette in movimento- sia in senso negativo -per i problemi che può risolvere o per i pericoli che può aiutare a scongiurare.

Visto da un punto di vista positivo, l’associarsi è un’espressione di amicizia, è un fare che denota sentimenti di simpatia e di amicizia. A partire dai classici, l’amicizia è stata vista come il modello per eccellenza di relazione tra liberi ed eguali, e certamente come un modello di relazione fra cittadini. Una forma di “mutuo scambio di servizi tra simili”, scriveva Cicerone, l’amicizia fra cittadini dura “fino a quando la simpatia è mutua e accettata”. Mutualità e accettazione volontaria sono i fondamenti che governano la distribuzione degli uffici pubblici in un governo libero; e sono anche i caratteri dell’associazione amicale tra liberi. I suffragisti del diciannovesimo secolo estesero non a caso al rapporto fra i generi e all’istituzione del matrimonio i caratteri dell’amicizia e del mutualismo. John Stuart Mill credeva che l’amicizia, non la regola della giustizia, fosse capace di ispirare la volontà dei partner di vivere insieme come eguali nel matrimonio. Solo quando il consenso e la mutualità erano assenti o consumati i partner avevano bisogno di appellarsi alla legge (e per questo, dovevano poter contare su una legge giusta).
Amicizia, per Cicerone come per Montaigne o per Mill, voleva dire l’aver trovato un compagno “nel perseguimento di un comune obiettivo”; questa era mutualità. I cui migliori esempi erano il viaggio e la guerra: cioè mutualità come ricerca intellettuale (viaggio) e mutualità come impegno a perseguire un fine che trascende gli interessi degli individui coinvolti nell’impresa e che implica sacrificio (guerra). Viaggio e guerra implicano relazioni tra compagni solidali, aiuto e sostegno non come nel caso della carità di chi ha e può verso chi non ha e non può. Aiuto tra eguali non è mai aiuto che umilia; un “sentire di essere impegnati nella realizzazione di un comune obiettivo; di cura mutua l’uno per l’altro, di aiuto dell’uno per l’altro in un ardua realizzazione”. La cura mutua, la mutua responsabilità è equal partnership, cioè valori condivisi e un’unità di forze complementari. Tutte queste erano caratteristiche cruciali nelle descrizioni antiche tanto della polis quanto dell’amicizia - idem sentire de republica.
L’eguaglianza degli amici, come quella dei cittadini, non significa ricerca di “un doppio”, di un altro me stesso; non vuole persone identiche, anzi ha bisogno di diversi nelle disposizioni e anche nelle competenze. E’ eguaglianza come emulazione amichevole, quasi rivalità nel comune fare fra caratteri simili nelle aspirazioni ma diversi nelle disposizioni. Rispecchia il modello di cittadinanza che Pericle aveva esaltato nella sua orazione funebre quando aveva dipinto la vita pubblica ideale come un progetto che traduce l’indipendenza personale in un “elemento di felicità” collettiva.

Non si può non vedere che questa visione di cittadinanza come partecipazione responsabile è conseguente a (e presume) una concezione dell’individuo come un soggetto autonomo ma non autarchico. La letteratura politica moderna ha distinto lungo questo crinale la sfera privata e quella pubblica, la libertà dell’individuo e quella del cittadino, l’autonomia morale e quella politica. Nella dimensione interiore ovvero in relazione a quella che Isaiah Berlin ha concettualizzato come “libertà negativa”, l’autonomia comporta auto-sufficienza -o, per ripetere le parole di Berlin, “ritirarsi nella cittadella interiore”. Comporta una condizione che potrebbe essere chiamata di indipendenza atomistica perché richiede completa non-interferenza da parte di coloro che saranno affetti dal nostro giudizio e dalle nostre azioni, a meno che queste non arrechino danno. Le mie opinioni, le mie scelte intime appartengono alla mia interiore società, e se c’è responsabilità è una responsabilità che devo a me stessa: il mutualismo è qui di me con me. L’autonomia morale e quella politica hanno per base comune la libertà, ma in un caso è una libertà di “fare quello che uno desidera” mentre nell’altro è necessariamente accettare di sottomettere il proprio fare a leggi e regole condivise, norme costitutive che noi stessi ci siamo dati (o accettiamo dalla generazione che le ha scritte). Mentre da una parte realizzo la mia personale libertà alzando un muro tra me e la società e facendo società mutua con me stessa, dall’altra realizzo la mia cittadinanza interagendo insieme agli altri, influenzandoci a vicenda nella formulazione dei giudizi politici e delle leggi. Se nel primo caso l’interferenza è avvertita come limite insopportabile alla mia libertà di scelta, nel secondo caso interferenza e reciproca influenza non violano l’autonomia; sono al contrario i mezzi che i cittadini hanno per deliberare insieme, associarsi e fare, discutere e cambiare. In questo caso, l’indipendenza del giudizio (politico) è concepita in termini di mutua dipendenza o interdipendenza. Il suo opposto non è l’interferenza bensì “servile dipendenza” o soggezione.
Pertanto, l’autonomia politica del cittadino è da intendersi come una forma di cooperazione piuttosto che come un agire solitario o anche la somma di volontà discrete di esseri che vivono accanto senza toccarsi o interagire, che cozzano l’uno contro l’altro come atomi ma senza scambiarsi mutue informazioni e sostegni. In un’impresa cooperativa, come nella città, i partner o i cittadini sanno che il bene che essi producono è comune nel senso che tutti lo condividono in qualche modo e nel senso che ciascuno vi ha contribuito con le sue specifiche capacità e idee. Questo senso di influenza reciproca distingue la cooperazione dal conformismo. Cooperare per un progetto presuppone impegno responsabile dei partecipanti, ma anche che essi siano diversi e abbiano tipi complementari di competenza. Diverse capacità con eguale opportunità di partecipare rendono l’interdipendenza una precondizione per raggiungere un compromesso o un accordo ragionato e ragionevole e infine per mettere insieme le forze e aspirare a qualche obiettivo comune. Un tale accordo non esclude né l’influenza reciproca né trasforma il consenso o il mutuo accordo in conformismo o passiva accettazione. Nello stesso tempo però non è mera transazione o mero compromesso strumentale, ma qualche cosa di più: appunto intraprendenza mutua.
Per ripetere Tocqueville, per i cittadini democratici associarsi non è semplicemente un “potente mezzo di azione” ma è “un mezzo per agire”; cioé non è soltanto uno strumento per risolvere un problema altrimenti non risolvibile (mutualità come strumentalità), ma è una forma di interrelazione, una forma che in molti casi si traduce in azione per uno scopo specifico ma che non riceve il proprio valore dal raggiungimento dello scopo. “Perciò il paese più democratico del mondo è anche quello in cui gli uomini hanno più perfezionato e applicato più frequentemente l’arte di perseguire in comune gli oggetti dei desideri comuni”. In questa prospettiva, la cittadinanza democratica è una società cooperativa perché è un processo (“un mezzo per agire”) per mezzo del quale ciascuno partecipa, per ciò che è, alla vita della collettività a partire dalle proprie capacità o disponibilità, diverse e correlative a quelle degli altri. Non per nulla la prima e più democratica forma di fare mutuo è quella che avviene vicino a casa: il comune, il quartiere, ecc.

Vengo infine, al secondo punto di vista, quello negativo, dal quale anche ho proposto di analizzare l’associazione mutua. Si legge nella Politica di Aristotele che il tiranno fa di tutto per tenere i sudditi isolati e inattivi, per far tutto al loro posto, non perché tiene a loro o vuole il loro bene, ma perché non vuole che loro stessi facciano da soli, che si cerchino e si associno. Una città sottomessa al potere dispotico è una città che non ha più cittadini perché non ha più una sfera pubblica nella quale individui tra loro diversi si incontrano e interagiscono, discutono e fanno piani insieme. Di più, è anche una città che ha perso la propria fisionomia ed è diventata una forma di domesticità, perché la sfera privata è l’unica rimasta alle persone: la città di sudditi è una città di individui che vivono in solitudine e silenzio, come entità spaziali situate l’una accanto all’altra senza soluzione di continuità. Una città senza amicizia e senza mutui interessi è una non-città.
Con l’acume che lo distingue, Tocqueville ha applicato questi pensieri -propri della tradizione repubblicana- per diagnosticare i rischi che stavano di fronte alla società democratica dei moderni. Mentre i classici avevano pensato che l’anarchia e la rivoluzione fossero i rischi fatali nei quali non poteva non incorrere una società fondata sull’eguaglianza (e quindi anche la democrazia, che per gli antichi era un governo degenerato), Tocqueville comprende una cosa di grande importanza, e cioé che non l’anarchia ma l’apatia, non la rivoluzione ma l’isolamento, non il troppo fare o il fare caotico ma il non fare sono i veri rischi dai quali la società democratica doveva guardarsi.
“Credo, dunque, che la forma d’oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici non rassomiglierà a quelle che l’hanno preceduta nel mondo, i contemporanei non ne potranno trovare l’immagine nei loro ricordi... La cosa è nuova, bisogna tentare di definirla, poiché non è possibile indicarla con un nome. Se cerco di immaginarmi il nuovo assetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. ... Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore ...; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi e industriosi, della quale il governo è il pastore. ...”.
Ecco dunque perché la più importante legge delle società umane che vogliano restare libere è l’arte di associarsi: l’arte di associarsi è essenziale sia affinché “gli uomini restino civili” (ovvero che restino democratici) sia affinché “lo diventino” (ovvero che si impegnino per diventare democratici). Ed è essenziale che quest’arte cresca tanto quanto cresce l’eguaglianza, la quale rende sì le persone indipendenti e libere ma le rende anche più deboli perché mette ciascuno nella condizione di pensare che non ha obblighi verso nessuno se non se stesso, la propria coscienza morale, e al massimo la propria piccola famiglia. Occorre in altre parole non restare impotenti nella nostra sovrana indipendenza e imparare ad “aiutarci liberamente”.
E’ questa la ragione per la quale penso che il mutualismo non sia l’infanzia del movimento democratico ma, al contrario, la sua maturità. In una società gerarchica, come era quella nella quale, per esempio, il solidarismo operaio e il mutualismo cooperativo sono nati in Italia e in Europa nel secolo scorso, il mutualismo è un’arma di auto-sostegno e di difesa di chi non ha e non è (visibile come cittadino) contro chi è superiore. Per ripetere la comparazione sopra menzionata, è un “potente mezzo di azione” ma non è ancora “un mezzo per agire”. E’ unione di deboli e oppressi, non di uguali e liberi. In una società inegualitaria o non-democratica il mutualismo è soccorso tra gli eguali non-eguali. Ma in una società di eguali, in una società che è nei costumi egualitaria -che piaccia o no ai nostri mediocrissimi politici che ci annoiano con le loro cantilene contro l’egualitarismo o che ci vorrebbero prescrivere come scegliere di diventare madri e padri- il mutuo associarsi prende un significato tutto e compiutamente democratico; aiuto tra e per noi, non perché bisognosi e subalterni ma perché eguali. E’ una forma di associazione presumibilmente più difficile, non più semplice. Non soltanto per le numerosissime e forti sollecitazioni che ci vengono da ogni parte a non prenderci cura che di noi stessi, non soltanto perché l’amministrazione dello stato è oggi molto più capillare e onnipresente, più ostruente e debilitante (anche se per nulla più sociale o di aiuto ai nostri bisogni); ma in primo luogo perché ora si tratta appunto di scegliere di aiutarsi o di “aiutarsi liberamente”.
Quelle che nacquero nel diciannovesimo secolo erano società di mutuo soccorso tra gli esclusi dal demos, tra politicamente non liberi. Occorrerebbe chiedersi quali sono oggi gli equivalenti di quelle società: probabilmente gli immigrati hanno le loro società di aiuto come i braccianti romagnoli della fine ‘800; hanno le loro reti di protezione perché essi devono pensare da se stessi a cosa fare per sopravvivere come invisibili in una terra che non è la loro con una lingua e costumi che non sono i loro. Probabilmente il mutualismo dei meteci culturali è l’equivalente del mutualismo dei meteci politici di ieri, dell’operaio e del contadino dell’altro secolo. Allora, il mutualismo fu una scuola di democrazia, senz’altro perché abituò persone diverse a mettere insieme le proprie forze e a scoprire la forza dell’unione. Occorrerebbe chiedersi se le associazioni mutualistiche degli immigrati possono svolgere questo stesso compito civico con i nuovi esclusi, o non diventino nuove mafie e nuove piccole società, amicizie di identici che vivono e amano vivere nella segretezza, contro la grande società. Le società di mutuo soccorso che fondarono gli italiani che emigrarono nelle Americhe non tardarono a diventare mafie -per ragioni tutte specifiche, si dirà; e probabilmente non è né corretto né produttivo generalizzare da alcune passate esperienze. Tuttavia, il meteco culturale è più estraneo ed escluso del meteco nazionale; la sua invisibilità più densa, la sua esclusione più radicale dell’invisibilità e dell’esclusione dell’operaio senza diritto di voto dell’800. L’analisi sulle forme del mutualismo è quindi quanto mai fondamentale; per conoscere la nostra società prima di tutto (quella parte buia e sommersa della quale non sappiamo e molto spesso non vogliamo sapere).
Un’altra domanda, non meno importante e impegnativa, che dovremmo porci è: quale mutualismo abbiamo noi cittadini democratici? Italiani di oggi, non di un secolo fa. I partiti, secondo Tocqueville, sono le “associazioni” che tolgono il mutualismo sociale dall’isolamento, che è la sua naturale tendenza (ciascuna città, ciascun villaggio, ciascun gruppo si prende cura dei propri soci e problemi con il rischio di diventare una specie di individualismo di gruppo), e mettono insieme esigenze e idee, elevano interessi a larga generalità, coordinano le parti più remote della società nazionale. Se le associazioni politiche sono il volano dell’associazionismo civile perché danno a queste ultime la loro generale cornice di riferimento, che cosa ne sarà del mutualismo in una società che vede da un lato erodersi i partiti e dall’altro restringersi il senso della generalità larga per quella stretta, del nazionale per il locale? Sono queste, numerose e difficili, le domande che dovrebbero interessare i lettori e gli amici di Una città. Parlare al presente non per dimenticare l’esperienza di chi il mutualismo l’ha fatto nascere, ma per arricchire la nostra conoscenza dell’anima democratica contenuta nel “mutuo scambio di servizi tra simili”.