Dario Calimani si occupa di analisi letteraria del testo biblico e di scrittura ebraica. Attualmente è professore ordinario di Lingua e Letteratura Inglese all’Università di Venezia. Sulla Rivista dei Libri / New York Review of Books ha recentemente scritto Una Shoah da dimenticare (aprile 1998) e Ri-scrivere Babele (gennaio 1999).

Ebraismo e memoria
“Ricorda il giorno di sabato per santificarlo”, intima la Torah, come se il sabato fosse un a priori da richiamare alla mente: il ricordo del passato, attivato da un’obbedienza al comando presente, permette il realizzarsi di un’osservanza futura. A trasmettere questo monito alla memoria è, immancabilmente per l’ebraismo, la scrittura.
La cultura ebraica ha le sue fondamenta nella scrittura e produce l’oralità a posteriori. I Maestri, però, insegnano che scrittura e oralità sono state date insieme, a Mosè, sul monte Sinai, e giungono anzi ad affermare che la Torah scritta è stata preceduta dal suo commento.
Dunque, nell’ebraismo, il rapporto che intercorre fra scrittura e oralità non è il comune rapporto filogenetico esistente fra una cultura popolare, orale, e la sua evoluzione in scrittura letteraria e colta, che perfeziona e fissa la forma orale.
Nella cultura ebraica, oralità e scrittura, o meglio “scrittura e oralità”, si compenetrano, si complementano, si giustificano e si riproducono a vicenda in un impegno a esistere che non aspira a essere conclusivo né a esaurirsi in un discorso ideologico chiuso.
Per individuare i ruoli assegnati dall’ebraismo alla scrittura e all’oralità si può ricorrere allo Shema’ Israel, Ascolta Israele, la dichiarazione di fede dell’ebreo, che codifica per gradi l’obbligo della scrittura: “E queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore. Le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai... Le legherai come segno sulla tua mano e saranno come frontali fra i tuoi occhi. E le scriverai sugli stipiti della tua casa e sui portali della tua città”. (Deut. 6:4-9).
Dunque, le parole sono comandate al cuore, poi le si insegna con cura ai figli, poi se ne parla, e infine le si lega fisicamente, nella loro forma scritta, e diventano segni di richiamo per la memoria, e le si scrive sugli stipiti delle porte. Già il legarle è un segno di scrittura sul corpo. Ma la scrittura, oltre a esserci, deve creare consapevolezza della propria esistenza, anche quando non la si vede, racchiusa nelle piccole teche che l’ebreo si pone sulla fronte e sul braccio durante la preghiera, o nella mezuzà, affissa sullo stipite della porta.
Così si guarda il segno che contiene la scrittura: la memoria viene stimolata dalla vista, oltre che dal dovere di ascoltare: “Ascolta Israele” è l’inizio della preghiera, e “ascolta”, in ebraico significa “comprendi”, “ubbidisci”.
L’Ascolta Israele contiene in sé i doveri della propria assunzione, del proprio insegnamento, della propria recitazione e, infine, della propria scrittura. Ma l’Ascolta Israele è già scrittura che evoca una Voce.
“Le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai”: le parole devono essere insegnate. E il testo ebraico sembra dire: “E parlerai per mezzo dei tuoi figli” indicando nei figli lo strumento attraverso il quale assicurare continuità alla trasmissione delle parole.
Il Dio della Torah è percepito in ascolto; non è un’immagine da vedere, ma una Voce da ascoltare. Straordinario il passo dell’Esodo in cui il popolo d’Israele, sotto il monte Sinai, in trepida attesa di una rivelazione -magari visiva- sembra interpretare i tuoni e i lampi improvvisi come annuncio di quella rivelazione: “E tutto il popolo vide i tuoni e i lampi e la voce dello shofar e la montagna che fumava”, e Rashì, nel XII secolo, chiosa che il popolo vide ciò che di solito non si può vedere: il suono e la Voce. In luogo di una rivelazione visiva, il popolo riceve la visione del frastuono. L’ebraismo dà spazialità e sostanza metaforica alla Voce di Dio, non letteralizzando la Sua presenza, bensì attraverso la scrittura. Una teofania testuale in fuga dal puro logocentrismo, verso un’oralità inafferrabile che si fa scrittura che si fa oralità in un processo riproduttivo aperto. Dio, il cui stesso Nome non ha suono, esiste, così, nel tempo della Voce e della narrazione e, insieme, nello spazio del testo. “E queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore. Le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai...”: l’Ascolta Israele, con un’operazione autoriflessiva, parla di sé ancor prima di farsi parlare e scriver ...[continua]

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