Aldo Colonnello, insegnante in pensione, è fondatore del Circolo culturale Menocchio, di Montereale Valcellina, Pordenone.

Come sei diventato maestro?
E’ avvenuto per caso. Ancora adesso, sono in pensione dopo trentasette anni di scuola, mi sorprendo, quando qualcuno mi chiama ‘maestro’. La più alta aspettativa che mia madre poteva avere su di me era che avrei fatto il muratore o addirittura il falegname. Le cose sono andate diversamente, forse perché a scuola me la cavavo bene, ma, certamente per una serie di casualità. Il mio ultimo maestro delle elementari frequentava l’osteria, come mio padre: dai oggi dai domani, convinse mio padre e mia madre a rischiare l’avventura di farmi fare -“poi si vedrà”-, l’esame di ammissione alla scuola media. Alla fine della terza media l’insegnante di lettere, Novella Cantarutti, una delle più note poetesse friulane, insistette perché mi facessero ‘continuare le scuole’, prendendo la strada più corta, le Magistrali: quattro anni, invece di cinque, e se ne usciva con un Diploma.
Mia madre era stata fermata alla terza elementare. Era la più brava della classe e, proprio per ciò, aveva ricevuto dalla maestra l’incarico di ispezionare ogni mattina le teste delle compagne di classe per controllare se c’erano pidocchi in circolazione. Mio padre, maschio, era arrivato a finire la quinta. Aveva la passione per la musica. Gli piaceva suonare la fisarmonica e la chitarra. Ma aveva dovuto smettere, perché lavorando come facchino in un mulino a riempire, legare e caricare sulla schiena sacchi di farina da cento chili, gli era venuta non solo la schiena storta , ma gli si erano ingrossate troppo le dita per poter ottenere suoni puliti da tasti e corde.
I suoi erano contadini, proprietari di nulla, fittavoli. Raccontava mio zio Tin, memoria storica della famiglia, che quando da Tauriano, un paese vicino, erano venuti, nel giorno di “San Martino”, a Spilimbergo, lo avevano fatto di notte col buio, perché si vergognavano della miseria che si portavano dietro sul carro. Erano grandi lavoratori, grandi bevitori e grandi bestemmiatori. Uomini e donne.
La mia nonna materna, come tutte le donne di famiglia, era invece religiosissima, ma non bigotta. Mi voleva bene, penso più che agli altri nipoti, ma era molto attenta a non farlo vedere. Negli ultimi anni della sua vita, sono stato il suo scrivano particolare. Ad ogni arrivo di pensione io avevo l’incarico di compilarle i vaglia per i vari santuari, in prima fila quello di S. Antonio di Padova che era una specie di supermercato della grazia, e poi altri sei-sette ai quali distribuire con mirata equità una parte della modesta pensione. Da lei e da mia madre ho imparato a rastrellare bene, ma non troppo, il fieno, per lasciare qualche filo d’erba per il nido degli uccelli; e anche, durante la vendemmia, qualche grappolo nascosto dietro le foglie, per dopo o per l’inverno dei passeri; o a “dimenticare” qualche pannocchia perché: “c’è sempre qualcuno, più povero di te, che ne ha bisogno”. Sono cresciuto ascoltando con un orecchio le preghiere verticali della parte materna e con l’altro quelle orizzontali (bestemmie ‘sacre’) del ramo paterno della parentela, delle quali mia madre si vergognava; una mia nonna la tranquillizzava dicendo che ci avrebbe pensato lei ad avvertire il Padreterno di segnare tutto sul suo conto. Altra casualità. Alle Magistrali, alla “Percoto” di Udine, insegnava nella sezione A, latino storia e geografia, Giuseppe Marchetti, pre Bepo. Era un prete di grande intelligenza e di cultura sterminata, insegnante brillante e suggestivo. Novella Cantarutti, che era stata sua allieva, mi iscrisse in A.
In Friuli si era formato da poco un attivo movimento per l’autonomia della Regione. Marchetti ne era l’anima culturale.
L’identità del Friuli veniva costruita per differenza. La lettura o rilettura della storia friulana era di tipo dicotomico: Celti autoctoni, più mitici che documentati, contrapposti ai Romani invasori; Longobardi assimilati ai Celti in quanto provenienti da nord e contrapposti ai Bizantini ‘meridionali’; Patriarchi (dello stato patriarcale di Aquileia), ‘dei nostri’ se tedeschi, dei poco di buono se veneziani o milanesi (e corrispondeva in gran parte al vero, almeno per alcuni di essi); l’Austria ordinata, amministratrice scrupolosa ed efficiente, capace di scegliere i migliori, severa nel punire, ma giusta, l’Italia superficiale, arruffona, disordinata, svogliata, parolaia: insomma poco ‘friul ...[continua]

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