Psichiatra, sociologo, si occupa dei problemi dell’adolescenza. Ha pubblicato per Feltrinelli Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio.

Per cominciare, potrebbe fare un quadro della condizione degli adolescenti oggi?
In questi ultimi anni mi pare stia emergendo un progressivo distacco affettivo dalla vita e quindi anche dalla morte. La vita ha perso di senso in rapporto al progetto, quindi alla identificazione proiettiva di sé e questa mancanza di prospettive ha in qualche modo indotto gli adolescenti a tornare indietro, a regredire, individualmente e collettivamente, verso quelle che loro percepiscono essere delle radici, che consentono un’appartenenza.
In questo vedo uno dei motivi per cui vi è una rinascita di fenomeni neonazisti o comunque di insularismo culturale -da questo punto di vista la Lega è un fenomeno interessante proprio perché esprime questo bisogno di regressione autoritaria- probabilmente causato da un grande senso di paura, paura per il futuro, paura, anche in senso metaforico, delle relazioni. E questo è un paradosso in una società fatta di relazioni, in cui la comunicazione non solo è più facilitata, ma anzi è forse diventata uno degli aspetti fondamentali dell’esistenza. Quindi da un lato nasce e si fortifica una cultura insulare, fatta cioè di isolotti culturali sempre più piccoli dove è più facile riconoscersi ma dove il rapporto con l’altro, con il diverso, è assolutamente impossibilitato e negato, e dall’altro vi è una necessità di comunicare senza comunicare. Le trasformazioni indotte dall’uso del telefono, del fax, delle comunicazioni, infatti, permettono un rapporto irreale, innaturale, in qualche modo “fiction”. Laddove un adolescente è costretto, non riesce a progettare, non riesce nemmeno a viaggiare con la fantasia, tuttavia subisce, attraverso i media, la pressione di un immaginario assolutamente irreale e improbabile. La pubblicità, per esempio, è il settore che si vede di più, non solo perché è fatta per essere vista ma proprio perché è piena di un immaginario in cui gli adolescenti si identificano molto. E’ una comunicazione irreale che permette ad ognuno di interloquire con un interlocutore non solo immaginario ma ideale: una sorte di sindrome di Zelig, in cui uno è tanto abbattuto, costretto nella vita quotidiana, quanto è ricco, diverso in questa vita immaginaria che viene comunicata. E questo è un primo aspetto.
L’altro aspetto, sottinteso a questo, è che il mondo dove si comunica con la massima facilità è anche un mondo dove c’è il massimo isolamento. L’isolamento, la solitudine sono connotati della società della comunicazione: più si comunica più si è soli. E’ un paradosso, ma più si hanno mezzi di comunicazione e meno si utilizzano mezzi di comunicazione naturali: la parola, il “vis à vis”, il contatto fisico.
La civiltà dell’etere ha creato un immaginario comunicativo che ha tolto capacità di concepire rapporti. Mio nonno aveva sicuramente più rapporti, in senso reale, di me. Io ho probabilmente due zeri in più di lui di conoscenti, ma lui aveva una rete di rapporti che io non ho più. Penso al paese, alle città com’erano una volta, ai luoghi di aggregazione di un tempo.
L’osteria non è sparita solo perché ci sono le jeanserie che premono e i contratti di affitto che aumentano, ma soprattutto perché è finita la necessità che l’aveva creata. Non si va più in osteria perché non ha più senso: da un lato si frequenta troppa poca gente, dall’altro gli adolescenti comunicano a livello internazionale. Da bambino io giocavo a calcio in parrocchia e mi confrontavo con venti persone. Oggi un adolescente che va in discoteca vede diecimila persone in una sera, quante ne ho viste io in tutto il liceo. Oppure si pensi alla rete neuronale dei computers o alla possibilità di rintracciare una persona in qualsiasi parte del globo con un semplice numero di telefono.
Ma in questo immaginario comunicativo, un’iperpossibilità di comunicazione milleduplicata rispetto all’età dei miei nonni, o anche solo a 30 anni fa, crea una mancanza di comunicazione. La realtà è molto misera. Proprio perché è cambiato lo “skill”, la capacità tecnica di comunicare. Per esempio l’ascolto, la curiosità rispetto alla diversità dell’altro non esistono più o tendenzialmente stanno sparendo. La cultura dell’osteria, la cultura del piccolo luogo di comunicazione e di incontro è una cultura che ormai non ha più senso.
E la solitudine creata da questo fenomeno diventa essa stes ...[continua]

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