Marco Revelli, storico, da sempre impegnato nel movimento operaio torinese, lavora al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Alessandria ed è redattore della rivista l’Indice.

Parliamo di sinistra e di movimento operaio. Come vedi la situazione?
Sono convinto che in questa fine secolo una serie di grandi pilastri culturali e istituzionali su cui si era formata la sinistra novecentesca, stiano crollando e con essi una serie di tabù o di luoghi comuni: il primato dello stato rispetto a ogni altra forma di socialità; la dimensione generale dell’organizzazione da preferirsi alle dimensioni particolari; l’assistenza pubblica anziché forme di solidarismo che non passino attraverso la mediazione dello stato; l’unità nazionale come valore all’interno del quale il movimento operaio può costruire una politica molto più adeguata che su una base di tipo localista. Questi punti fermi sono stati erosi da una serie di processi che stanno segnando la fine del novecento e che costituiscono una sfida molto alta, che richiede fantasia, che richiede la capacità di tenere molto fermi i principi, ma molto flessibili le strategie e gli obiettivi. Occorre una capacità di inventare forme nuove, diverse, di stare insieme, di far politica, per rompere frontalmente con i tre elementi che costituiscono la tradizione consolidata della sinistra del novecento, più o meno dagli anni venti in poi, in tutte le sue varianti, dal leninismo al laburismo, all’S.P.D., all’eurocomunismo: il sindacato generale, il partito di massa e lo stato sociale. Questa triade -la crucialità della rappresentanza degli interessi da parte del sindacato generale, il significato del partito come contenitore esclusivo dell’azione politica e lo stato sociale come garante del solidarismo e dell’universalismo dei principi- è scardinata da due elementi: uno è la fine del fordismo taylorista, cioè la fine di un modello di organizzazione del lavoro e della produzione basato sulla produzione di massa e sulla razionalizzazione del lavoro di grande fabbrica; l’altro è il venir meno del modello keinesiano di rapporto tra politica ed economia, un modello basato sulla coincidenza fra spazio della politica e spazio dell’economia, fra stato nazionale e mercato nazionale. E a provocare la fine di questi due modelli sono i processi di globalizzazione dell’economia. Questo forse è l’elemento nuovo, radicale, che sta segnando la svolta. E il processo di globalizzazione non è semplicemente il commercio internazionale, non è l’economia capitalista che spazia in tutto il mondo nello scambio delle merci. E’ che tutto il mondo oggi è diventato disponibile alle attività produttive in termini istantanei, che oggi è possibile comunicare in tempo reale con qualsiasi punto del pianeta e non solo dal punto di vista delle telecomunicazioni, ma anche del trasferimento delle merci. Spostare un semilavorato dall’Europa all’Australia richiede al massimo diciotto ore. Questo significa che tutto il mondo può diventare un segmento di un processo di produzione globale. Il tele-lavoro è l’esempio classico.
Se pensiamo che le grandi softer-house americane, produttrici di programmi per computer, impiegano nel loro ciclo lavorativo ingegneri indiani che, costando da sette a dieci volte di meno, producono i loro pezzi di programma collegati via modem con gli elaboratori centrali della casa madre negli Stati Uniti, via satellite, in tempo reale, utilizzando, grazie ai fusi orari, gli impianti che sono lasciati liberi dai lavoratori americani che a quell’ora stanno dormendo, ci accorgiamo di aver di fronte un processo lavorativo in tempo reale ai due estremi del mondo.
La transnazionalizzazione dell’economia e l’acquisizione di una formidabile mobilità del capitale che può spostarsi in tempi straordinariamente rapidi in ogni parte del mondo, fa sì che possa scegliersi quelle localizzazioni che gli danno maggiori garanzie dal punto di vista delle condizioni delle forze lavoro, delle infrastrutture, delle politiche dei servizi che gli stati possono mettere a disposizione. Cipputi è rimasto inchiodato al suo territorio di fabbrica e non può prescinderne, ma Agnelli ha acquisito una mobilità straordinaria.
Questo significa che le politiche economiche nazionali, che lo stato nazionale che, attraverso la leva fiscale e l’erogazione del reddito ridisegnava i rapporti tra le classi, è totalmente saltato, lo spazio dell’economia è diventato il mondo mentre lo spazio della politica è ri ...[continua]

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