Mattia Ferrari è educatore, pedagogista e coordinatore in una comunità educativa per adolescenti poco fuori Cremona, formatore in ambito accademico e scolastico. Dal 2016 unisce la pedagogia ai pedali in un progetto che promuove la crescita personale e la conoscenza di sé attraverso il dispositivo educativo del viaggio: ogni anno percorre in bicicletta con un gruppo di ragazzi la via Francigena da Cremona a Roma in bikepacking. È amico e volontario della Ciclofficina di Cremona La Gare des Gars.

Ci racconti di questa vostra esperienza?
Sono un educatore dal 2002 e un pedagogista, coordino una comunità per minori stranieri non accompagnati dal 2010; nel 2015 ho comprato la mia prima mountain bike e ho compiuto da solo il mio primo viaggio, da Cremona fino a Roma, 800 chilometri, seguendo la via Francigena. Per me è stata una scoperta, arrivata in un momento molto difficile per via di alcuni cambiamenti nella mia vita personale e in un periodo complicato anche per la comunità dove lavoro, dovuto al “boom” degli sbarchi. Quel primo viaggio in bicicletta ha innescato un processo di trasformazione di molti aspetti della mia vita: mi sono iscritto di nuovo a scuola e ho chiesto ai miei collaboratori di ripensare il progetto, cambiando alcuni assetti educativi. Così nel 2016 ci siamo ritrovati, io e il mio collega, con cinque ragazzini sulla via Francigena!
Avevamo comprato, con un bando, cinque biciclette con la monocorona (che hanno solo il cambio posteriore) perché, per i nostri ragazzi, gli incroci nel cambio marcia tra anteriore e posteriore risultano troppo difficili. Il monocorona è più facile dato che ti accorgi subito se pedali a vuoto oppure se la pedalata è troppo dura. Abbiamo preso delle borse per le bici e siamo partiti.
Occupandoci di adolescenti che non hanno la famiglia qui, abbiamo pensato cosa potesse aiutarli a crescere, anche perché i percorsi alla fine sono tutti uguali e quasi obbligati: bisogna mandarli nelle scuole, professionali per dar loro un mestiere e ai corsi di italiano per ottenere le licenze medie. Di fatto non scelgono mai loro, in realtà nemmeno di venire in Italia perché sono le famiglie che li mandano. Sono ragazzini di quattordici, quindici anni a cui la famiglia dice di partire, andare in Libia, da lì prendere una barca per raggiungere via mare l’Italia, trovare un lavoro e mandare soldi a casa. Si può immaginare il loro carico emotivo: sanno che devono andare in un posto per salvare la loro famiglia, ma quando arrivano qui scoprono che non possono lavorare perché l’Italia non lo permette, hanno tutto un carico di aspettative che non si possono realizzare. I ragazzi si trovano quindi nella condizione di non poter fare le cose che piacciono a loro. Allora la domanda che sta alla base di questo progetto educativo è: “Come scegli?”. E anche “Cosa scegli?”.
Quando progettiamo e proponiamo un viaggio, viene solo chi ha voglia di venire; abbiamo optato per l’assetto in bikepacking, perché le borse sono poco capienti, così devi viaggiare leggero e avere con te solo l’essenziale. Diamo loro venti euro al giorno: devono bastare per mangiare, dormire e sistemare la bicicletta; se ad esempio si rompe un componente, non possono spendere oltre il budget che hanno.
Come si svolge il viaggio?
Intanto definiamo le regole di ingaggio. Il viaggio è da Cremona a Roma in bici e siamo alla decima edizione; quest’anno siamo andati giù due volte. Quando presentiamo la proposta, facciamo vedere dei video e delle foto e chiediamo loro chi vuol venire. In genere tutti vogliono partecipare. Dopo iniziano le domande: quanto dura, cosa si fa, è sicuro e se succede questo e quello? Ma si torna sempre lì, alla domanda: “Cosa scegli? La paura, l’avventura, il coraggio? Vedere posti nuovi, metterti alla prova, dimostrare?”. L’intenzionalità educativa è rappresentata dalle domande: “Cosa vuoi dalla vita?”, “Come puoi ottenere le cose che desideri?”. Quindi la scelta è alla base di tutto. Il viaggio in bicicletta funziona così: i primi tre giorni servono per orientarsi; io e il mio collega guidiamo il gruppo e gli mostriamo come si va, quali sono i segnali specifici, quelli in bianco e blu e in bianco e rosso, da seguire sulla Francigena; come si compra da mangiare e cosa si può mangiare, dove si può dormire, in genere Ospitali o parrocchie. Dopodiché ciascuno dei partecipanti, si alterna alla guida del gruppo. Così i ragazzi hanno un carico emotivo molto alto, si trovano a chiedersi che strada fare, quale direzione prendere, a dover gestire la paura di commettere errori. Non si può usare il Gps, o meglio, il primo giorno io gli faccio vedere dove siamo e dove dobbiamo arrivare, per tranquillizzarli, poi lo spengo per tutto il viaggio. A quel punto i ragazzi seguono la cartina e i segnali. La Francigena esiste per i camminatori a piedi; per le bici, c’è il sentiero, lo sterrato, addirittura una parte in asfalto, ma devi capire cosa vuoi in quel momento: essere sereno e tranquillo scegliendo un tipo di strada oppure provare quella sterrata e in salita? Considera che alcune volte neanche siamo arrivati alla meta, perché durante il viaggio succede che cambino le priorità. Una volta, per dire, a Radicofani, un ragazzino con la febbre insisteva affinché gli altri proseguissero, mentre lui sarebbe rientrato, ma in quel momento l’istanza più forte per il gruppo era di restare e tornare prima, tutti insieme: “Siamo partiti come gruppo e torniamo come gruppo”. Quello che secondo i canoni delle performance degli appassionati è un fallimento perché non sei arrivato a destinazione, per noi diventa una opportunità di crescita. E questo vale in ogni singolo momento. Quest’anno un ragazzino a Fucecchio si è fatto male con la bici, lo abbiamo medicato e si è fatto tardi. Mancavano ancora trenta chilometri per arrivare, ma potevamo scegliere di fare solo cinque chilometri e tornare indietro in un posto sicuro. Occorre avere la capacità anche di riprogettare e affrontare magari un momento di sconforto, stanchezza o anche solo di tensione. Alla fine i ragazzi hanno deciso di tornare indietro per un’altra strada che ci ha indicato un signore, dicendoci anche che c’era un Ospitale. L’ospitalero ci ha preparato la cena e abbiamo conosciuto delle persone, abbiamo visitato una vecchia chiesa che non conoscevamo e degli scavi medievali. Tornare indietro è stata un’occasione che ci ha arricchito. Quest’anno sul passo della Cisa non avevamo da mangiare perché non c’erano luoghi dove comprare cibo. Così il gruppo si è reso conto che bisognava organizzarsi in maniera diversa perché è questo che fa la differenza: sapere se c’è da dormire o da mangiare e anche quando arrivare e quanto tempo ci vuole. Il fatto che non ci sia nessuno di noi adulti che si preoccupa di questo porta alla luce tutte le capacità che hanno di prendersi cura tra di loro; sono abituati a cercare di sopravvivere da soli, ma in questi casi hanno cambiato prospettiva, si sono guardati e hanno deciso di stare insieme, dividendosi i compiti, così mentre uno cercava i supermercati, un altro la strada, un altro ancora l’Ospitale. Il viaggio è sempre un’occasione per imparare ad affrontare un futuro che non possiamo sempre prevedere, ma che ci deve trovare attrezzati.
All’inizio di ogni viaggio i ragazzi non smettono mai di chiedere quanto manca; poi a un certo punto non lo fanno più perché imparano che non lo puoi sapere: puoi contare i chilometri che rimangono, ma non il tempo, che è soggetto a tantissime variabili ambientali e personali; alla fine quello che vuoi è arrivare a fine tappa. Arrivare non è un bisogno, invece mangiare, riposare, farsi una doccia, sì.
Perché in bici e, per esempio, non a piedi?
La bicicletta ti fa scegliere, la strada ti entra dalle ruote come dalle scarpe, ma la bicicletta nel nostro caso specifico ci dà un criterio di accesso dove puoi decidere di alzare o abbassare l’asticella; abbiamo fatto qualche esperienza di cammino; però camminare non è per tutti: dolore, zaini pesanti, scarpe di qualità, posture sono tutti fattori che condizionano; invece, la bicicletta regala un sacco di scelte: puoi andare piano, forte, puoi scendere e spingere; tra l’altro la manutenzione è un mezzo educativo molto potente perché trasmette la cura di se stessi: devi tenere pulita la catena, controllare i freni, che i rapporti funzionino, saper cambiare una ruota. C’era un ragazzino che tutte le sere puliva la sua bici: prendeva lo straccio, tirava via lo sporco e passava ogni singolo nottolino con un chiodo. Soprattutto in bicicletta puoi programmare meglio le tue tappe, vuol dire che puoi decidere di fare tot chilometri sulla base della giornata, di come ti senti; mentre a piedi non puoi fermarti se non a destinazione, con la bici se non arrivi puoi cercare nei dintorni con qualche libertà di movimento in più.
Ma questi ragazzi hanno già vissuto la loro grande avventura. Drammatica, ma anche epica. Hanno sulle loro spalle un vissuto che li ha portati a dover scegliere in ogni momento cose tra la vita e la morte, in che modo si inserisce allora la vostra proposta?
Ci sono due aspetti che noi vediamo negli anni: l’essere mandati dalla famiglia e i vissuti legati all’abbandono che sono quelli che saltano fuori in alcuni momenti durante i nostri viaggi. Ad esempio, una volta che siamo arrivati al mare a cinque metri dalla battigia, Daouda non voleva bagnarsi i piedi. Noi pensavamo fosse per il possibile trauma subìto nella traversata, invece era il ricordo di suo padre che gli aveva detto di non scherzare mai con il mare. Penso che occorra un grandissimo coraggio per fare una cosa non programmata. Ma c’è una differenza molto importante: noi gli offriamo l’occasione per fare un salto, per poter scegliere una cosa che li riguarda, senza nessuna sollecitazione legata alle necessità della famiglia. Il paragone tra i due viaggi non viene mai fuori in modo esplicito, però saltano fuori le storie di casa. Quando incontriamo dei pellegrini lungo la strada e le persone chiedono dov’è la loro casa, c’è chi risponde: “Cremona, ma il Ghana o il Senegal è la casa dove sta la mia famiglia”. Cambia il concetto di luogo come appartenenza. C’è un’altra cosa per me fondamentale ed è quella del fare ritorno; c’è molta retorica nelle narrazioni del viaggio come occasione di fuga, dell’andare senza mai arrivare. Noi viaggiamo per far ritorno da dove siamo partiti. In molte culture il viaggio è un rito di passaggio per diventare grandi, segnare una separazione, realizzare un’emancipazione dalla famiglia.
Mi viene in mente il viaggio che si fa dopo la maturità…
Esatto! L’idea del nostro progetto non è quella di diventare grandi, ma quella di scegliere. Il punto non è “cosa ci guadagno” da questo, ma “cosa voglio per me”; scegliere il gruppo non è un motivo, ma una scelta di valore. Quando sono stanco scelgo di fermarmi piuttosto che arrivare, perché il mio corpo ha bisogno di riposare; se sono le cinque del pomeriggio e piove e ho bisogno di sentirmi rassicurato, scelgo la strada meno impegnativa, se invece capisco che ho bisogno di mettermi alla prova, tento la salita sullo sterrato.
Quest’anno il gruppo durante la strada, ad esempio, non ha scelto l’avventura, ma l’incontro, ha privilegiato ogni occasione che faceva conoscere più persone. Vivendo in un contesto nuovo, estraneo, strappato dai tuoi luoghi, hai bisogno di confrontarti con la tua identità, un termine che viene dall’aggettivo identico. Ma identico a chi? Posso sapere chi sono io conoscendo chi sono gli altri, ho bisogno di ascoltare le loro storie per riformulare un’idea su di me. Una sera, mentre stavamo piantando le tende, abbiamo conosciuto un signore che ha fatto il muratore e i ragazzi gli hanno chiesto cosa volesse dire per lui fare quel lavoro, non come si faceva, né quanto guadagnava. Quando scegli di essere un compagno, un amico sincero, un fidanzato, ti chiedi cosa significa per te, come farlo viene dopo.
Ci sono due momenti fondamentali durante il viaggio che avvengono la mattina e la sera: prima di partire ci diciamo cosa vogliamo dalla giornata che ci aspetta e la sera, dopo cena, i ragazzi scrivono sul loro diario di viaggio cinque emozioni che hanno provato durante la giornata: felicità, rabbia, tristezza, malinconia... Una delle regole d’ingaggio è di essere in grado di comprendere un minimo la lingua italiana perché bisogna pur parlarsi tra nazionalità diverse. Un anno però, che mancava questa condizione, abbiamo fatto il diario solo con i disegni; questo pensiero interno li accompagna durante tutto il giorno, sei concentrato sulla pedalata, ma anche su come ti senti in quel momento: per esempio mi sento arrabbiato perché abbiamo trovato chiuso l’Ospitale; mi sento felice perché siamo arrivati e nessuno si è fatto male; sono molto triste perché ho perso il mio diario con tutti i timbri delle credenziali del Cammino. L’idea, come vedi, è sempre quella del “che cosa voglio da me per stare bene”. È un dispositivo pedagogico collegato alla consapevolezza che ho ricostruito dai miei studi, insieme ai miei colleghi. Spesso la confondiamo con la conoscenza, ma la sua definizione è molto chiara ed è la capacità di riconoscere quello che sento. I sentimenti dei ragazzi sono sempre intensi, vissuti al massimo, ma sono solo la punta dell’iceberg, la cima, il resto è tutto sotto. Riconoscere, sentire, essere consapevoli, significa sapersi gestire: se io pedalo e sono arrabbiato cerco di non incanalare la rabbia di quel momento nella foga per poi ritrovarmi a metà salita senza fiato.
Quando scegliamo una strada, scegliamo anche come gestire la tappa e questo ha a che fare con la responsabilità che in latino è la capacità di dare risposte e che gli inglesi traducono meglio con l’espressione: ability to respond, cioè la capacità di far fronte agli eventi: non è che, se sbagli strada, smetti di guidare il gruppo; ascolti e ti ascolti e continui nel tuo ruolo per quella giornata. Il compito di chi guida non è impartire ordini, ma sentire tutti gli altri, assicurarsi che non manchi nessuno, che stiano tutti bene, che ce la facciano a proseguire o che invece vogliano fermarsi. Non sei il boss, ma il leader. Colui che non comanda, ma guida. L’idea di responsabilità sta tutta qui.
Molti viaggiatori comuni fanno esperienze che si basano molto sulle performance fisiche e le condizioni ambientali; la preparazione (in alcuni casi necessaria) è sempre meticolosa, quasi ossessiva: traccia gps, previsioni meteorologiche, app, cardiofrequenziometri, mentre voi preferite scegliere giorno per giorno.
Una persona durante uno dei viaggi mi ha fatto notare la differenza che passa tra preparazione e allenamento. Fai conto che loro sono ragazzi che non hanno mai fatto più di venti chilometri in bici; quindi noi li prepariamo, loro imparano come riconoscere i segnali di attenzione, come si fanno le rotonde, come ci si ferma agli stop, quando dare la precedenza, eccetera; prepariamo insieme il materiale da portare nelle borse, come guadagnare spazio, imparare a riconoscere le cose utili da quelle inutili.
Questa è la preparazione. Il sentirsi pronti, che è più o meno quello che ti dicevo prima, la capacità di rispondere agli eventi. Nell’ultimo viaggio eravamo a Fiorenzuola D’Arda e non c’era da dormire, arriviamo a Fidenza ed era lo stesso, in cima a una collina troviamo un convento che ci ospita, avevamo fatto tipo novanta, novantacinque chilometri, non saprei neanche dirti il dislivello, anche questo significa essere pronti; come quando intravedi i nuvoloni e non hai bisogno di metterti subito il k-way, ma solo quando inizia a piovere, se lo fai prima sei preparato, non pronto. La mattina dopo tutti quei chilometri, pioveva e i ragazzi hanno preferito che spiovesse perché avevano sulle gambe la strada del giorno precedente. Quel giorno lì abbiamo fatto solo venti chilometri ed erano sufficienti. Non c’è una regola fissa. Quel giorno è finito poi con una signora che ci ha raccontato della sua malattia e i ragazzi sono stati tutta la sera ad ascoltarla, ma perché erano riposati. Chiamala fortuna o provvidenza, ma per vivere appieno l’esperienza che la strada ti offre e avere lo spazio e l’energia per goderti questi incontri non devi spingerti al limite.
Essere allenato significa che posso raggiungere degli obiettivi fisici: che non mi faranno male le spalle, che sarò meno stanco, ma non è sufficiente per viaggiare, mentre sentirsi pronti a partire, sì, è necessario. Significa non sapere a che cosa si va incontro, ma essere orientati a prendere tutto quello che arriva. Secondo me, preparazione vuol dire anche mettersi in relazione e capire cosa voglio e come posso ottenerlo, ad esempio. Una cosa che noi chiediamo prima della partenza è di prendersi cura della bicicletta, imparare a cambiare una camera d’aria, tenere pulite le catene; preparazione è sapere che si può cucinare con il fornellino a gas o ad alcool. Facciamo il riso, la pasta, le verdure e lasciamo libera scelta su cosa i ragazzi vogliono portare con loro. Il valore poi è anche quello di prendersi tutto il tempo di cui si ha bisogno, non dobbiamo arrivare in tempo. Se uno non arriva a Roma, va bene. Noi ci diamo comunque un limite massimo di quattordici giorni, perché una scelta per essere credibile deve essere praticabile, cioè, fattibile; quindi, deve avere dei confini e un costo. È la stessa differenza che passa tra avere l’accesso illimitato con la musica o doverla comprare, nel primo caso accumuli senza farci caso e nel secondo stai attento a cosa compri.
Ritorna l’idea alla base del progetto: la scelta. Una volta a Marina di Massa un ragazzino mi ha detto che voleva fermarsi lì, non aveva mai visto le montagne dietro al mare e andava bene così. O c’è chi vuole finire il suo percorso in Piazza del Campo a Siena, perché lì è bello e si sta bene.
Questo porta con sé anche dei momenti di tensione; magari non tutti la pensano allo stesso modo.
Ci sono stati dei ragazzi che sono tornati indietro, come a Radicofani e un’altra volta a S. Quirico d’Orcia; quei ragazzi avevano deciso che per loro non era possibile continuare, ma erano già presenti delle tensioni nel gruppo per via di alcune personalità che avevano bisogno di affermarsi sugli altri. Naturalmente in quei casi il conflitto non si è risolto e noi non mandiamo via nessuno; i ragazzi interessati hanno deciso che ritornare era la scelta giusta per tutti e sono rientrati a casa.
Ci sono poi discussioni infinite su cosa mangiare, dove dormire, sul fatto di avere pochi soldi. Una volta, a Ponte d’Arbia, un paesino prima di Assisi, era luglio con un caldo torrido, l’unico negozio di alimentari era chiuso e c’era un solo bar aperto, i ragazzi sono entrati e hanno chiesto di riempire le borracce dal rubinetto, l’ultimo dei ragazzini è uscito con una lattina di Coca-Cola, costava cinque euro e così aveva finito i soldi, figurati cosa gli hanno detto tutti gli altri: “Tu stasera non mangi, io non ti presto i soldi, ora ti arrangi...”.
Per farla breve, arriviamo a Siena, in un Ospitale, e ci offrono la cena; era giusta o sbagliata la scelta della Coca-Cola? Per me è tutto materiale buono per poter discutere, perché una scelta che facciamo porta con sé delle conseguenze e la discussione fa emergere i sentimenti che non sono positivi o negativi, ma possono essere comodi o scomodi; la rabbia è un qualcosa che ci dice anche quello che vogliamo o quello che non abbiamo. Nel caso della Coca-Cola quel ragazzino voleva essere tranquillizzato dopo la fatica e l’imprevisto in un caldo pomeriggio di luglio senza avere da mangiare e da bere: quella lattina si ricordava di averla avuta dalla sua mamma il giorno prima di partire. Sono tutte occasioni, come quando in discesa alla Cisa per evitare una cosa che mi era caduta dalla tasca, due si sono scontrati in frenata; sfuriata per più di un’ora su di chi era la colpa. Tirare fuori la rabbia e la tristezza per quello che è successo significa anche mettere ordine; la regola che ci siamo dati a quel punto è che, se cade qualcosa, si lascia a terra, che occorre mantenere una distanza di sicurezza perché se ti vengo contro ci facciamo male e magari non riusciamo a finire il viaggio.
Quanti viaggi proponete durante l’anno e, una volta tornati, cosa rimane dell’esperienza?
In genere una o due volte l’anno, tra maggio e settembre, da Cremona a Roma, e una volta l’abbiamo fatto al contrario con chi l’aveva già compiuto per vedere le stesse cose da un punto di vista differente. Poi succede che ne parlano tra di loro, per cui si crea una aspettativa intorno alla proposta e capita che la sera i nuovi arrivati vengono a chiederti: “Ma quando si parte per Roma?”.
Quest’anno abbiamo inserito un giro di tre giorni al lago d’Iseo perché i ragazzi volevano fare un giro in bici e in quel periodo avevano pochi giorni a disposizione. Sulla restituzione è difficile per un pedagogista prendere dei dati da queste cose perché è una lettura qualitativa che dipende da molti fattori legati alla quotidianità, banalmente, ad esempio se quel giorno arrivi asciutto o bagnato.
Prima della partenza noi facciamo un’intervista e abbiamo una prima idea e quello che leggiamo alla fine del viaggio è l’acquisizione di una maggiore consapevolezza nelle scelte: se so quello che voglio, prendo delle decisioni e so anche quali sono quelle più giuste. Cioè, mi preparo, mi prendo cura di me, ma non sono solo. Un ragazzino durante il viaggio in bici era molto incerto se finire l’alberghiero, la strada lo ha aiutato a capire meglio cosa voleva.
Quando è tornato, alla fine della scuola, gli hanno proposto un tirocinio presso un club sportivo rinomato, ma dopo poco lui voleva andare via. Abbiamo insistito perché ci sembrava un’ottima occasione, ma lui ci ha detto che non gli piaceva. In realtà aveva le idee molto chiare e aveva scelto. Infatti, ora sono più di tre mesi che lavora nel bar del teatro di Cremona, uno dei posti più esclusivi della città, e quando sono arrivati dei cugini da Milano per convincerlo a seguirli che avrebbe guadagnato anche di più, lui si è rifiutato. La consapevolezza di quello che vuole per sé lo ha portato a scegliere dove stare.
(a cura di Luciano Coluccia)