Francesca Gori si è occupata di storia del dissenso in Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa centro-orientale, in particolare del movimento di Solidarnosc. Tra i suoi lavori: Italiani nei lager di Stalin, Laterza 2006, poi pubblicato in Russia Italjancy v stalinskich lagerjach, 2009. Ha tradotto vari autori russi fra cui Cechov, Dostoevskij, Turgenev, Gogol. È membro fondatore della Associazione Memorial Italia.

Come nasce la collana “Narrare la memoria”?
Questa collana si inscrive nell’attività svolta negli ultimi anni da Memorial-Italia, parte dell’associazione Memorial, crea­ta a Mosca negli anni Ottanta, il cui scopo fondativo era la salvaguardia della memoria delle vittime delle repressioni politiche contro i silenzi, le censure e le falsificazioni della storiografia ufficiale. Con il suo quarantennale impegno, attraverso i suoi centri di ricerca, gli archivi, le pubblicazioni, la promozione di mostre e seminari e l’attivismo in difesa dei diritti umani, Memorial ha svolto un ruolo determinante nel sollecitare la riflessione pubblica sui temi della violenza, del totalitarismo e della violazione dei diritti. Oggi, come sappiamo, Memorial è stata liquidata, insieme ad altre organizzazioni non governative, dal regime di Mosca con l’accusa di “apologia del terrorismo ed estremismo” e le sue cento sedi sparse nel territorio russo sono state chiuse.
La nostra collana, edita da Guerini e associati, pubblica testi rimasti a lungo inediti perché vietati dalla censura o stampati in versioni fortemente manipolate. Memorie, lettere, romanzi autobiografici, testi memorialistici in cui il vissuto dell’autore s’intreccia con gli eventi politici, culturali, sociali che hanno segnato la storia del Novecento e in particolare quella dell’Unione Sovietica e che hanno un alto valore di testimonianza.
Due dei volumi che abbiamo pubblicato nella collana, Leningrado. Memorie di un assedio di Lidija Ginzburg e Quasi tre anni. Leningrado. Cronaca di una città sotto assedio di Vera Inber, affrontano un tema “scomodo”, quello dell’assedio di Leningrado, che in Russia è sempre stato oggetto di censure e distorsioni nei testi della storiografia ufficiale dove si è alimentata a scopo di propaganda la retorica sull’eroismo della città-martire, tacendo sulla gestione disumana della catastrofe da parte della leadership sovietica. I due diari della Ginzburg e della Inber, con le loro descrizioni dettagliate della vita quotidiana dei leningradesi, sono una testimonianza veritiera e illuminante sui novecento giorni dell’assedio e al contempo una lucida riflessione su un fenomeno storico che suscita ancor oggi molti interrogativi.
Lidija Ginzburg, importante filologa e critica letteraria, allieva di Tynjanov, Ejchenbaum e Sklovskij, negli anni del regime staliniano, in quanto esponente del Formalismo, aveva subito violenti attacchi da parte dei teorici della letteratura sovietica ed era stata perseguitata per la sua origine ebraica. Gli anni della sua giovinezza e della maturità sono trascorsi sotto la costante minaccia dell’arresto e della deportazione nei lager. Di natura schiva, non incline al conformismo, occupa un posto appartato nell’intelligencija sovietica e pur avendo insegnato all’università, per sfuggire alle costrizioni del potere ufficiale, non diventerà mai membro di alcuna istituzione, né ricoprirà mai alte cariche accademiche.
Nel suo diario, che tiene nascosto in un luogo segreto, la Ginzburg ricostruisce la tragedia collettiva dell’assedio nella sua angosciosa quotidianità. Dobbiamo ricordare che nascondere diari e scritti di carattere personale era una prassi diffusa tra i cittadini russi, soprattutto nel periodo del Grande Terrore, poiché nel caso di una perquisizione improvvisa da parte della polizia politica e di un arresto, anche questi scritti privati potevano costituire una prova incriminante. La Ginzburg rivede incessantemente il diario nel periodo della maturità, rielaborando l’esperienza vissuta e fatti, memorie e impressioni raccolti nel corso degli anni. Protagonista della narrazione è un intellettuale, denominato genericamente N, una sorta di alter ego maschile dell’autrice, che diventa il simbolo della resilienza dell’individuo che lotta per preservare giorno dopo giorno la propria umanità e la propria dignità tra fame, paure e spaventose privazioni.
Ciò che conta per l’autrice è raccontare quello che provano gli uomini costretti a vivere in una condizione di degradazione e sofferenza estreme, costruire una sorta di fenomenologia dell’assedio. Il suo diario è quasi un trattato antropologico. Nelle sue pagine non si menziona quasi mai il nemico, il “tedesco”. Questa parola compare solo due o tre volte aggettivata, in riferimento alle armi, alle mitragliatrici usate dai nemici. L’interrogativo che tormenta la Ginzburg è capire fino a che grado di disumanizzazione può arrivare chi è costretto a vivere la tragedia dell’assedio. Ci sono, per esempio, dei brani bellissimi, commoventi in cui si raccontano casi di leningradesi che potrebbero fuggire, evacuare dalla città assediata, ma che scelgono di rimanere per non abbandonare i propri cari anziani o malati nel gelo delle loro abitazioni e senza nulla da mangiare. Dal racconto essenziale della Ginzburg, dalle sue analisi e autoanalisi si delinea il quadro di una realtà estrema, disumanizzante, la stessa che accomuna l’uomo dell’assedio al prigioniero del gulag. Un altro motivo ricorrente è quello della fame, della carestia che attraversa tutta la storia russa. La Ginzburg descrive le interminabili, angosciose code che i leningradesi sono costretti ad affrontare per pochi grammi di pane e il sistema delle tessere annonarie e di approvvigionamento dei generi alimentari. Nel diario è molto presente anche il tema della città, la città profondamente amata, con cui i leningradesi hanno un legame indissolubile; la città simbolo dell’arte, della cultura che tuttavia può trasformarsi in un luogo ostile, presa di mira com’è costantemente dall’artiglieria nemica, dove i palazzi possono all’improvviso crollarti addosso e dove l’unico riparo è il rifugio. Come la poetessa Ol’ga Berggol’c, autrice di un altro importante diario sull’assedio, anche la Ginzburg collabora con Radio Leningrado, l’emittente che sarà un essenziale punto vitale e di resilienza per la città per tutti i novecento giorni dell’assedio, e diventerà con i suoi programmi sulla letteratura russa una delle voci più amate della radio. Nelle sue memorie la Ginzburg si sofferma sulla vita culturale nella città assediata, che coi suoi cinema, i suoi teatri, le sale da concerto, i circoli e le biblioteche continua a essere viva, stimolante malgrado il gelo, la fame, la paura. La cultura riesce a trasmettere un po’ di conforto e di speranza agli abitanti della città. Quello dell’assedio era un tema scomodo e nel dopoguerra su questo tema calò una cortina di silenzio. Il regime vietò l’accesso a fotografie, filmati e materiali che documentassero la portata di quella catastrofe. Inizialmente i vertici militari non avevano capito che Leningrado sarebbe stata accerchiata e questo errore di valutazione strategica costò la vita a un gran numero di anziani, bambini e a molti altri abitanti della città che si sarebbero potuti far evacuare per tempo. Ma alla Ginzburg non interessa denunciare gli errori compiuti nella conduzione delle diverse fasi dell’assedio, che furono numerosi, né criticare la sua gestione o esprimere dei giudizi politici; preferisce concentrarsi sulla parabola esistenziale di N, sulla sua lotta per sopravvivere, sul suo rapporto con la città assediata e la redazione dove lavora.
Durante l’assedio, nel ’43, il partito decise di redigere un decalogo di norme su come si doveva descrivere l’assedio: non si dovevano menzionare gli alleati, documentare le drammatiche condizioni in cui versava la città, le privazioni estreme a cui erano sottoposti i suoi abitanti, i casi di cannibalismo, e in generale tutti gli aspetti della degradazione.
Alla Ginzburg erano ovviamente noti questi divieti, ma aveva deciso di non tenerne conto, cosa che invece non farà Vera Inber nel suo diario. A differenza che nei diari di Ol’ga Berggol’c e di Lidija Ginzburg, nelle memorie della giornalista e scrittrice Vera Inber, accanto alla cronaca dettagliata e oggettiva dei giorni dell’assedio, ha uno spazio rilevante anche la retorica ufficiale del regime: la vita dei leningradesi è trasfigurata eroicamente e viene esaltato il loro sacrificio per la difesa della patria e dell’ideale.
Tuttavia, anche quella di Vera Inber è una figura tragica. Cugina di Trockij, trascorre tutta la sua vita nel terrore di essere arrestata e deportata. Aderisce al Circolo letterario dei costruttivisti e poi si dedica al giornalismo, collaborando con varie riviste. Il lavoro di corrispondente la porta a viaggiare attraverso la Russia e all’estero. La sua fede nel comunismo è sincera così come il suo amore per la patria. Nel 1941 decide di trasferirsi a Leningrado per documentare in prima persona la realtà della città assediata. Nella dura realtà dell’assedio rischierà anche di morire di inedia. Con le sue pagine, in cui la fede ideologica ha un ruolo rilevante, contribuisce alla creazione del “mito dell’assedio di Leningrado”, fino a diventarne lei stessa vittima.
Abbiamo deciso di pubblicare il diario aggiungendo in appendice i brani da lei stessa eliminati per conformarsi al decalogo redatto dal Dipartimento di propaganda del Partito comunista sovietico. Nel ’44 rielabora ulteriormente il diario eliminando dalla narrazione tutti i riferimenti alla sua sfera intima, privata per evitare che il testo appaia troppo personalistico. Dopo questo lavoro incessante di rimaneggiamento e modifica grazie al diario si aggiudica il premio Stalin. La fama acquisita con il premio fa sì che il libro venga tradotto in varie lingue. Ma questo successo segna un po’ anche la fine della sua parabola artistica. La sua vena poetica, che all’inizio del libro si era espressa in una serie di belle liriche che avevano come eroine alcune figure di donne, in seguito sembra esaurirsi. Continuerà a scrivere e a pubblicare, ma alla fine verrà ricordata solo per il diario dell’assedio e il poema Il Meridiano di Pulkovo.
Quello dell’assedio è un fenomeno storico estremamente interessante tuttora oggetto di indagine da parte dei ricercatori.
La città vinse, riuscendo a respingere il nemico e a rompere il cerchio dell’assedio. I leader cittadini del partito, Kuznecov e Voznesenskij, amatissimi dai leningradesi, vennero convocati a Mosca e furono accolti nel Politbjuro, ma Stalin temeva il ruolo rilevante acquisito dalla città con la vittoria e paventava il rischio che il suo prestigio potesse essere oscurato dal successo dei due leader leningradesi. I dati sull’assedio vennero ripetutamente falsificati dal potere sovietico così come il numero delle vittime che oscillava fra cinquecentomila e un milione a seconda delle diverse fasi del regime e della necessità o meno di glorificare la vittoria di Leningrado. Si dovette aspettare l’apertura degli archivi con l’avvento di Gorbaciov al potere per poter accedere alle fonti documentali.
Un altro episodio determinante nella ricostruzione della vicenda dell’assedio fu il cosiddetto Affare Leningrado, una serie di processi che si svolsero tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta a carico di alcuni importanti esponenti politici sovietici, accusati di aver dato vita a una corrente ostile al potere centrale. Gli accusati vennero sottoposti a giudizio e condannati alla fucilazione anche se la pena di morte era già stata abolita nel paese da alcuni anni. Della loro esecuzione si venne a sapere solo dopo che era stata eseguita e che altri duecento cittadini russi sospettati di essere legati all’Affare di Leningrado, in maggioranza ebrei, vennero arrestati e mandati nei campi. Fu l’esito della lotta personalmente condotta da Stalin contro Leningrado, una manifestazione della sua avversione per la città, l’ex capitale voluta da Pietro il Grande, il cuore culturale e artistico del paese, la città che aveva dato i natali a Kirov, suo temibile rivale poi assassinato.
L’assedio si sviluppò attraverso varie fasi raccontate nel museo storico che venne inaugurato nel ’46; un museo straordinario, che illustrava attraverso le fotografie e altri materiali documentali la realtà dell’assedio. Il museo, aperto e inaugurato con grande risonanza, durante il periodo dell’Affare Leningrado venne inizialmente chiuso e in seguito smantellato. Anche la sezione archivistica andò in parte distrutta, mentre quella militare fu donata al Museo militare di Leningrado. Fu riaperto negli anni di Krusciov per essere poi di nuovo chiuso con Brežnev. Nel succedersi dei vari governi l’apertura e la chiusura di questo museo sarà determinata dalla convenienza o meno da parte del potere, a seconda delle fasi politiche, di glorificare l’esperienza della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul nazifascismo anche celebrando l’assedio di Leningrado e la coraggiosa resistenza dei suoi abitanti. Oggi il museo è stato naturalmente riaperto, ma nella forma di museo multimediale, con tanti grafici e video, forse per attrarre i visitatori più giovani.
Anche Nikolaj Nikulin scrive un libro sull’assedio, Memorie di guerra. Leningrado (1941-1945).
Sì, nel suo diario Nikulin tocca il tema dell’assedio. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale appena diciottenne parte come volontario per il fronte e partecipa in prima linea ad alcune fra le più sanguinose battaglie per la liberazione di Leningrado, venendo ferito per quattro volte. Nel 1945 sarà con le truppe che raggiungono Berlino, conquistandola. Nikulin definisce la sua testimonianza la confessione di un ragazzo spaventato.
La realtà della guerra ci viene rivelata attraverso uno sguardo puro che permette di rompere il muro di menzogne della propaganda; lo sguardo di un ragazzo scagliato all’improvviso nell’universo atroce della guerra. Le sue memorie ci forniscono una descrizione cruda ed estremamente realistica della guerra dove gli uomini si imbarbariscono, perdendo i propri fondamenti morali e rischiano di trasformarsi in bestie, ma anche degli effetti devastanti che la guerra ha, anche dopo anni, su chi l’ha vissuta. Fino alla fine della sua esistenza Nikulin si sentirà oppresso da un senso di colpa per essere sopravvissuto a quei terribili avvenimenti, ne sarà tormentato, non riuscendo a sfuggire ai ricordi del fango, del sangue e delle pile di cadaveri. Tornato a casa alla fine della guerra, si iscrive all’Università di Leningrado e si specializza nell’arte dell’Europa occidentale, diventando dapprima guida all’Ermitage e poi uno dei più importanti curatori delle collezioni di pittura olandese e tedesca del museo.
Nikulin avverte la necessità di trasferire sulla carta i suoi ricordi e, pur temendo il rischio di possibili conseguenze, nel 1975 avvia la stesura del suo diario, che rimarrà chiuso nel cassetto per quasi trent’anni, con l’intento di fornire una testimonianza quanto più possibile veritiera sugli avvenimenti bellici. Con l’aiuto e il sostegno di Piotrovskij, conosciuto grazie al suo lavoro all’Ermitage, riesce a pubblicare le sue memorie. Il libro diventerà un vero caso editoriale e alla sua uscita avrà l’effetto di uno shock sul pubblico dei lettori.  
Leggere oggi le pagine di Nikulin, tragicamente attuali, non può che convincerci di quanto la guerra, in ogni sua forma, sia un’assurda follia.  
Lui è anche molto sarcastico, in certi punti si sorride, pur in modo amaro, per esempio quando racconta che dopo aver conquistato una collinetta gli vogliono concedere l’ingresso nel partito comunista senza il periodo di prova e lui non lo vuole...
È un autore brillante, raffinato, che rifugge dalla retorica della propaganda e dai suoi slogan per focalizzarsi sulla memoria e sul suo vissuto. Di resoconti di guerra in Russia ne erano già usciti a migliaia, ma nessuno aveva quel tono sarcastico, riuscendo a essere al tempo stesso così empatico e distaccatamente lucido. Il libro ha avuto un grande successo, è stato tradotto prima in Francia e ora anche in Italia.
Partendo anche dalle memorie di Nikulin a un certo punto lui chiama Stalin il padrone. Ma nella memoria recente della Russia, come è percepita la figura di Stalin, anche rispetto a Putin?
Nikulin risulta un po’ sarcastico quando si riferisce a Stalin, ora invece Stalin pare essere tornato al primo posto nel gradimento dei russi, è lui il leader più amato, grazie anche alla narrazione putiniana sulla Seconda guerra mondiale, la “Gran­de guerra patriottica” come la si definisce in Russia, amplificata da tutto l’arsenale della propaganda. Fino a poco tempo fa, alla parata militare del 9 maggio, giorno in cui in Russia si commemora nella Piazza Rossa la Giornata della Vittoria sul nazifascismo, a sfilare erano i veterani. Ora invece vengono portate in corteo le loro foto. Quest’anno la parata si è svolta in una forma ridotta per paura del terrorismo, ma negli anni passati, il corteo dei figli e nipoti dei veterani che sfilavano solenni con queste immagini, quasi simili a delle icone, conferiva alla cerimonia un’aura quasi sacrale.
Oggi la nuova narrazione putiniana sulla Seconda guerra mondiale è così forte e pervasiva e la propaganda dei media così efficace che la gente non ricorda neppure più i crimini commessi da Stalin e ha rimosso ciò che è stato lo stalinismo. Stalin appare agli occhi dei russi come il salvatore della Russia, il leader a cui si deve la vittoria sui nazisti. Uno slogan che viene ripetuto ossessivamente ora che c’è la guerra in Ucraina, dove tutti sono nazisti…  
Non fa concorrenza a Putin questo ritorno in auge di Stalin? Putin si vede come Stalin?
Putin intende tornare ai confini territoriali dell’Urss post-bellica, vuole ripristinare l’Urss così com’era prima della sua dissoluzione nel ’91 e prima che le repubbliche reclamassero la loro indipendenza. Credo che il suo sia un piano ambizioso che non riuscirà a realizzare, ma credo che questa sia la sua aspirazione di fondo. In questo senso non può vedere in Stalin un concorrente, anche lui combatte contro i nazisti…
Ci parli un poco degli altri libri?
Il primo romanzo che abbiamo pubblicato nella collana s’intitola Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso, di Anatolij Pristavkin, uno scrittore che non ha avuto molta fortuna all’estero. Il romanzo è ambientato nel 1944. Pristavkin, prendendo spunto da un’esperienza autobiografica, ricostruisce la tragedia della guerra attraverso gli occhi di due undicenni, i gemelli Saška e Kol’ka Kuz’min. I due fratelli vengono trasferiti insieme ad altri cinquecento ragazzi da un orfanotrofio della periferia di Mosca nel Caucaso, in un villaggio ceceno dove la popolazione è stata appena deportata verso la Siberia con l’accusa -falsa- di collaborazionismo con il nemico nazista.
I ragazzini si assomigliano come gocce d’acqua e approfittano della loro somiglianza per prendersi gioco di tutti, ma soprattutto per cautelarsi nei confronti del mondo che appare sempre più minaccioso. Uno dei due, Kol’ka, si trova a dover affrontare un dolore insostenibile: la morte del fratello, impiccato a una palizzata, vittima dell’attacco violento dei ceceni alla popolazione russa. È una perdita terribile, che induce il ragazzino a riflettere sul problema dell’insensatezza della guerra e della violenza. Lo consolerà un bambino ceceno, suo coetaneo, altrettanto solo, che la guerra ha privato dei genitori, di una casa e perfino del diritto di vivere nella propria terra. Con l’immagine di questa fraterna amicizia, auspicio di comprensione reciproca e di pace, si chiude il romanzo. Sullo sfondo delle vicende personali dei due gemelli si delinea una tragedia nella tragedia, un evento storico, passato sotto silenzio dalla storiografia sovietica e che Pristavkin nel romanzo rievoca in tutta la sua drammaticità: la deportazione forzata di interi popoli dalle proprie terre di origine.
Poi c’è il diario di Nikolaj Punin, L’arte in rivolta. Pietrogrado 1917. Punin, teorico e storico dell’arte, è una figura chiave della vita culturale russa del periodo pre- e post-rivoluzionario. Nel 1918 viene nominato da Lunacarskij responsabile del Dipartimento delle arti figurative e commissario del Museo Russo e dell’Ermitage e partecipa attivamente alla vita pubblica. È coinvolto in prima persona nell’organizzazione della vita artistica di Pietrogrado e si dedica intensamente all’attività museale e alla didattica, partecipando al dibattito culturale sui fondamenti estetici e il ruolo della nuova arte. Il diario che abbiamo pubblicato si è miracolosamente conservato nell’archivio della famiglia Punin, sfuggendo alle perquisizioni della polizia segreta durante i due arresti di Punin, nel 1921 e poi nel 1935.
Le sue memorie si focalizzano sul 1917, un anno cruciale per la Russia, e ripercorrono la fervida e irrequieta stagione delle avanguardie artistiche restituendoci degli splendidi ritratti di alcuni dei suoi protagonisti come Chlebnikov, Majakovskij, Larionov, Malevic e Tatlin. Nelle pagine del suo diario Punin racconta gli eventi storici e politici di cui è testimone, alternando flashback autobiografici e resoconti di cronaca politica e culturale a vivide descrizioni della vita quotidiana e riflessioni sull’estetica, l’arte e la storia.
L’epistolario tra il filosofo russo Aleksej Losev e la moglie Valentina Loseva che è uscito con il titolo La gioia per l’eternità. Lettere dal gulag (1931-1933) è la prima opera di Losev a essere pubblicata in Italia. Il suo autore è una delle figure più eminenti della storia del pensiero filosofico e religioso russo del XX secolo. Losev e la moglie, entrambi cristiani ortodossi, appartenenti al movimento dei Glorificatori del Nome dei Glorificatori (onomatodossia), furono arrestati per attività antirivoluzionaria e condannati alla reclusione in un gulag da cui vennero liberati nel 1933 grazie all’intervento Ekaterina Peškova, moglie di Gor’kij. La corrispondenza è strutturata come un “dialogo spirituale” tra il filosofo e la moglie, Valentina, scienziata, anche lei deportata in un altro lager. Nelle lettere riaffiorano i ricordi della giovinezza, gli studi all’università, si affrontano temi filosofici e si descrive la condizione spirituale ed esistenziale del filosofo che è stato privato, oltre che della libertà, della possibilità di dedicarsi all’attività creativa e intellettuale. Ma il carteggio, pur avendo una dimensione così intellettuale e privata, rappresenta al contempo una drammatica testimonianza della quotidianità nei campi staliniani. Scoperto nel 1954 nell’archivio personale di Losev, viene pubblicato per la prima volta in Russia solo decenni dopo, nel 2005.
L’ultimo libro edito nella nostra collana è Parole trafugate: diari clandestini dalla Russia (1970-1971) di Eduard Kuznecov. Abbiamo deciso di riproporre ai lettori questi diari di uno dei protagonisti della storia del dissenso sovietico, già apparsi nel 1972, per la loro straordinaria attualità. Kuznecov, scrittore e giornalista dissidente, viene arrestato per la prima volta nel 1961 a poco più di vent’anni e condannato a sette anni di reclusione per propaganda antisovietica. Nel 1970 viene processato, per aver tentato, insieme a un gruppo di ebrei russi dissidenti, di dirottare un aereo verso Israele e condannato alla pena di morte. La pena gli verrà commutata, grazie alla pressione dell’opinione pubblica internazionale, in 15 anni di reclusione in un campo di lavoro a regime speciale in Mordovia. I suoi diari, fatti uscire clandestinamente dal Lager speciale n. 10 in Mordovia, giungono miracolosamente nelle mani di Sacharov. Kuznecov ha trascorso quasi l’intera giovinezza dietro le sbarre, lottando quotidianamente per rivendicare la libertà di pensiero e il diritto di resistere a un potere tirannico, malgrado le degradanti e inumane condizioni di vita dei lager. I suoi diari sono una coraggiosa prova di resistenza morale e insieme una lucida denuncia dei meccanismi perversi che regolano uno Stato totalitario. Pur essendo stati scritti tra il 1970 e il 1971, sono tuttora una potente testimonianza che ci ricorda come anche oggi in Russia il potere continui a ricorrere agli stessi metodi coercitivi e repressivi nei confronti dei suoi nuovi oppositori.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)