Luisella Battaglia insegna Filosofia morale presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Genova e dirige l’Istituto Italiano di Bioetica. Recentemente ha pubblicato Etica e animali, Liguori Editore, 1998.

Parlare del mondo animale partendo da Gandhi è decisamente una scelta anomala, un azzardo...
Da tempo mi occupo del mondo vivente, con un interesse preciso al discorso del mondo animale, della natura. Recentemente in occasione di un convegno per l’anniversario della morte di Gandhi, avvenuta nel gennaio del ’48, ho avuto l’opportunità di approfondire i miei studi proprio a partire da un ripensamento del significato della figura e dell’opera di quest’uomo. Gandhi è un personaggio estremamente complesso, e leggendolo sotto questa luce, mi sono accorta che è addirittura più interessante di quanto potessi immaginare. Ad esempio, pur sapendo benissimo che Gandhi era vegetariano -me ne ero occupata in passato in occasione appunto dei miei scritti sul vegetarianesimo- ritenevo che questa scelta fosse legata esclusivamente ad una concezione di sacralità della vita, quindi alla sua visione induista, ad una scelta, tutto sommato, di carattere religioso: la vita è unica, noi e gli altri animali, l’intero vivente, siamo parte di un tutto... Questo indubbiamente resta vero, però accanto a questa visione, che è la più immediata che noi abbiamo di Gandhi e dell’induismo, ci sono altri aspetti per noi occidentali forse più sorprendenti.
Un tema che emerge fortemente dagli scritti di Gandhi, ad esempio, è quello dell’etica della responsabilità. Parlo di un’etica attenta alle conseguenze dell’agire. E’ abbastanza insolito attribuire questa etica ad un pensatore come Gandhi, che noi saremmo portati a pensare in rapporto all’etica dell’intenzione. Invece in Gandhi noi troviamo fortemente accentuata proprio l’idea che l’uomo nelle sue azioni deve essere responsabile, deve agire in modo da ridurre al minimo la quantità di violenza nel mondo. Ecco la non violenza. Gandhi infatti è perfettamente consapevole che non ci potrà mai essere una totale riduzione della violenza. Il non violento è cosciente di vivere immerso nella violenza: la stessa azione del mangiare è violenza, perché chi mangia, anche se non uccide direttamente, in ultima analisi, userà comunque qualcuno che uccide per lui. Anche se mangia un vegetale è violento. Gandhi tuttavia ritiene che una volta assodato che nel nostro agire c’è violenza, noi possiamo responsabilmente ridurre tale violenza al minimo. Allora, se ci poniamo appunto in questa ottica della responsabilità possiamo mettere in atto alcune mosse strategiche, possiamo per esempio cominciare a dire che comunque non uccidiamo se non in condizioni estreme. E le condizioni estreme riguarderanno allo stesso modo gli uomini e gli animali.
Forse qualche esempio può aiutarci a capire meglio la non violenza gandhiana...
In genere si è abituati a pensare che Gandhi abbia un pacifismo etico-religioso di tipo tolstojano. Questo è un errore, perché Tolstoj aderisce ad un pacifismo evangelico, del tipo "porgere l’altra guancia". Tolstoj ritiene che l’uomo in pericolo non deve comunque reagire, anche nel caso estremo non deve uccidere chi lo assale, non deve mai reagire con la violenza. Gandhi, invece, è convinto -e questo emerge proprio da uno scambio di lettere fra lui e Tolstoj- che vi siano dei casi estremi, appunto, in cui l’uomo non violento, il vero non violento, può reagire con la violenza. Nel caso, ad esempio, sia in pericolo la vita sua o di qualche innocente. E’ il caso del pazzo che mette in pericolo il villaggio, oppure della tigre che entra nel villaggio, e non c’è altro modo di salvare la vita degli abitanti. Ecco, qui per noi c’è già una prima grossa incongruenza: un non violento che ammette la violenza.
Ma Gandhi non si ferma qui. Ci sono molti casi in cui sostiene che per gli uomini come per gli animali la non violenza, così come lui la intende, è -cito testualmente- "un oceano di compassione", nel senso che la sofferenza che provano gli uomini e gli animali può essere tale da indurre il non violento ad andare incontro al loro desiderio di non soffrire. E allora quando non c’è nulla da fare ecco che può acconsentire al loro desiderio di spegnere la vita e quindi lenire definitivamente la sofferenza. Eccoci così ad una seconda difficoltà: il non violento che ammette l’eutanasia. Ci sono moltissimi esempi a questo proposito, di fronte a un vitello che non si riesce ...[continua]

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