Roberta Passoni, insegnante elementare, è esperta di inclusione, coordina le attività educative della casa-laboratorio di Cenci e ha appena pubblicato, nelle edizioni Junior, A partire da un libro. Imparare a leggere e imparare ad amare i libri nella scuola primaria.

Tu sei insegnante elementare e hai fatto l’insegnante di sostegno. Tuttavia, quando è nato tuo figlio Lorenzo, ti sei trovata impreparata...
Dico subito che un conto è pensare di occuparsi di disabili, un conto è improvvisamente avere un figlio con disabilità. è un’altra cosa. Se tu fai l’insegnante di sostegno, fai l’operatrice, ti occupi di, ma sei un’altra cosa. Quando ti nasce un figlio con disabilità tu diventi quella cosa. Non credo che le mie esperienze precedenti mi abbiano preparata a questo. Penso non ci possa essere niente che ti prepari allo sconvolgimento che si ha quando nasce un figlio disabile. Io ho fatto una grande battaglia con me stessa per non cedere ad alcuni pensieri, a non dimenticare mai che mi era nato un figlio. Lorenzo era un bambino. C’è un momento in cui tutto diventa patologico, perché il sistema sanitario giustamente, o non giustamente, ponendo la salute come priorità assoluta, si sente autorizzato a utilizzare metodi anche aggressivi, difficili da tollerare. Il fatto che ti sia nato un bambino, cioè la cosa più naturale del mondo, diventa oggetto di osservazione: se si attacca quando allatti, se non si attacca, cosa succede… Tutto cambia perché è come se continuamente volessero riconoscere in quel bambino i segni della malattia.
Lo capisco, io stessa cominciavo ad avere dei dubbi i primi giorni dopo che è nato Lorenzo. Facevo strani esperimenti per capire. La cosa che suscitava stupore era che non lo avevo mai sentito piangere. Ritardavo apposta i momenti dell’allattamento per vedere se piangeva. Però in quei giorni ho cercato di mantenere un contatto vero. Lui stava al nido e io volevo stare il più possibile con lui. Chiedevo di poter andare continuamente perché se c’era un momento in cui ero serena era quando stavo con lui e potevo ritornare nella dimensione madre-figlio. Quando stavamo insieme, lui era mio figlio e io ero sua madre. La frase che dissi al primario dell’ospedale, quando mi comunicò che Lorenzo aveva la sindrome di Down e cominciò a elencarmi tutte le caratteristiche di quella sindrome fu: "Non ho partorito una sindrome, ho partorito un bambino. Lasciatemi scoprire da sola che cos’è la sindrome di Down”. A parte le indicazioni mediche importanti, per il resto non mi piaceva mi si dicesse che lui sicuramente avrebbe fatto questo, non avrebbe potuto fare quest’altro... Non mi sembrava giusto. Non lo si fa con nessun bambino, perché bisognava farlo con lui? Ho sempre pensato che Lorenzo avesse il diritto ad avere un futuro incerto come ce lo abbiamo tutti, senza dovermi per forza aspettare delle cose. Questo credo mi abbia aiutata molto nel crescere mio figlio, il fatto di non pensare che tutto seguiva un percorso prestabilito. Mi sono detta che avrei fatto in modo che Lorenzo mi stupisse, che crescesse come Lorenzo.
L’ho pensato subito. Ho pensato che non volevo metterlo dentro alla letteratura. Ho pensato che, prima di avere la sindrome di Down, Lorenzo era figlio mio e di suo padre.
Questo era il mio chiodo fisso. Io ci ho sempre creduto, anche nei momenti più bui. Anche quando era molto difficile dal punto di vista della salute fisica, leggevo in Lorenzo un forte attaccamento alla vita che mi dava speranza. Anche quando la salute fisica ha lasciato il segno nella sua psiche e abbiamo attraversato momenti molto duri, non ho mai pensato che sarebbe stato sempre così. Ho creduto che saremmo cresciuti, cambiati, che ci sarebbe stata un’evoluzione.
In che cosa tuo figlio ti ha maggiormente stupita?
è difficile da dire, Lorenzo mi ha stupita talmente tanto! Mi ha stupito la sua determinazione. Ho delle immagini di quando, a tre anni, non riusciva a camminare, però si muoveva da seduto e mi ricordo che aveva sempre le gambe graffiate. Quando voleva arrivare a qualcosa ce la metteva tutta. Un altro ricordo è la sua frase "gliel’ho fatta”, perché lui ha sempre avuto l’atteggiamento di provarci. Lui ci prova, non si ferma, ce la mette tutta e quel "gliel’ho fatta” lo diceva sia quando riusciva a vedere un film alla televisione, sia quando riusciva a colorare qualcosa o ad andare in bicicletta... Quando sentivo dirglielo pensavo: "Anch’io gliel’ho fatta”, perché certe volte ...[continua]

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