Maida Cristina Molfetta è un’antropologa culturale e cooperatrice internazionale. Ha studiato a Torino, frequentando il Dipartimento di scienze antropologiche, dove nel 1995 ha discusso una tesi di laurea su uno dei campi profughi bosniaci: Gašinci. Negli ultimi cinque anni ha collaborato con Intersos.

Da quindici anni lavori nella cooperazione internazionale. Puoi raccontare?
Ho lavorato all’interno della cooperazione quasi sempre in situazioni di conflitto e post-conflitto, operando con i rifugiati.
Dopo una prima esperienza in Bosnia sono stata in Sud America, poi nell’area tribale pachistano-afgana, e dopo ancora in Darfur. Ho passato gli ultimi tre anni in Kurdistan, nel Nord dell’Iraq. Sono tornata nell’aprile dello scorso anno. Dopo ogni esperienza, sono intercorsi cinque o sei mesi di pausa necessari per essere di nuovo pronta a partire. Di solito rimango in un paese per due o tre anni: il periodo più breve può essere di un anno e mezzo. E di solito ci sto da sola. Questa è la modalità di lavoro che mi sono scelta negli anni: da sola con gli abitanti del posto. I periodi di sosta fra un’esperienza e l’altra servono perché stare lì in quel modo vuol dire assumere punti di vista, modi di vedere, di vestire, di mangiare che non sono facilmente intercambiabili. Quest’ultima volta è stato diverso. Sono tornata e mi sono presa un anno sabbatico perché sentivo l’esigenza di creare un vuoto più grande e di fare emergere delle riflessioni su tutto questo periodo, sulla modalità di lavoro, sulle cose che posso aver imparato o non imparato.
La tua prima esperienza importante è stata in Bosnia.
In questi anni ho riflettuto molto sulla Bosnia, un paese che mi accompagna dal 1993 e che continuo a seguire. Dopo quindici anni mi sembrava importante ripercorrere questa storia. Così, nel mese di luglio, ci sono tornata con il mio compagno. Abbiamo rivisitato tutti i posti, dal primo campo profughi in cui ho vissuto a quelli delle città dove avevo portato avanti dei progetti.
La Bosnia è stata un po’ un punto di svolta della cooperazione: negli interventi successivi la cooperazione e l’intervento militare sono diventati sempre più interconnessi rendendo sempre più difficile distinguere fra i due tipi di intervento. E poi si è affermato questo modello del "divide et impera”. Dal trattato di Dayton, dall’intervento in Afghanistan e adesso in Iraq continuiamo a proporre e sostenere questa divisione della popolazione in aree etniche. Eppure questa ricetta si è rivelata talmente fallimentare che viene da chiedersi perché insistiamo.
Questa opzione infatti porta ad un impoverimento sociale, culturale, economico della società.
In Bosnia ci sono andata la prima volta nell’estate del 1993. All’epoca stavo studiando a Torino e facevo parte della segreteria del servizio civile internazionale. Un giorno in segreteria è arrivato un foglietto da Roma che parlava di un campo di lavoro organizzato da una Ong croata di cui si era avuta notizia all’ultimo momento e che proponeva una permanenza all’interno dei campi profughi per svolgere animazione con bambini e ragazzi. L’avviso è rimasto lì per un po’, non si iscriveva mai nessuno. Così a giugno, dati gli esami, mi sono detta: ci vado io e sono partita, sapendone davvero poco. Quando sono arrivata mi sono resa conto che gli strumenti che possedevo anche solo di conoscenza della realtà di quel Paese erano molto poveri. Io poi ero giovane, avevo 21 anni…
Non ho mai avuto la presunzione di salvare niente e nessuno, però sicuramente sono arrivata con una grande freschezza che si è dovuta confrontare con una immensa tragedia. Per fortuna già il modo in cui avevo viaggiato mi aveva aiutato a prepararmi. Il fatto di essere arrivata in treno a Zagabria da sola, il fatto che comunque c’era quest’aria di guerra, per cui man mano i passeggeri civili spariscono e anche sui tram c’erano una marea di militari… All’ostello della gioventù poi ho incontrato altri giovani di tante altre parti d’Europa e il giorno dopo abbiamo proseguito assieme. Il campo profughi era in Slavonia, una regione fra Zagabria e Belgrado parallela al fiume Sava. Il posto si chiamava Gašinci, vicino alla cittadina di Đakovo. Gašinci era proprio solo un villaggio, c’era un poligono militare che poi è stato trasformato in campo profughi, per tutto il periodo della guerra è stato il campo profughi più grande, quello dove si sono ammassate più persone.
Come si svolgeva la tua giornata nel camp ...[continua]

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