Rosalba Ponzio lavora presso la FreeLine, Rettorgole, Vicenza.

Noi siamo stati i cinesi dell’Europa per trent’anni, perché costavamo meno di tutti gli altri, avevamo potenzialità lavorative infinite e c’era anche la manovalanza che si prestava. Questo è un settore che luccica… ma non è tutt’oro quel che luccica. Per la fantasia però eravamo i più bravi in assoluto. Abbiamo inventato e creato. Poi è arrivata la globalizzazione. L’oreficeria non è un’industria, è artigianato, e nella globalizzazione rischia di scomparire. I più giovani non vogliono più farlo, e noi vecchiotti, che conserviamo la passione da veri artigiani, ci barcameniamo, con la fantasia di essere degli Armani e la realtà, invece, di essere solo le loro braccia.
Cosa fa un orafo? Sogna di notte quello che potrebbe fare di giorno… Guarda quello che c’è in giro, il vestiario, la moda, i colori, le tendenze, e si adatta. Parte con un’idea magari stupida e poi la rivede mille volte fino a che non ottiene un oggetto finito. Lavoro manuale dall’inizio alla fine. Si fa la lega, si ottiene una barra che poi si trafila e diventa filo o lamina e, dopo, ci sono mille tipi di lavorazioni. Lo stampato, ad esempio, che deriva da uno stampo pensato e fatto in acciaio armonico, che è il negativo dell’oggetto che deve uscire. E da lì con la lamina si trancia, si saldano tutti i pezzi assieme, e li si lavora per creare il movimento dell’oggetto. Perché ogni oggetto dovrebbe avere la sua vita. Fino ad arrivare agli ornamenti, che non sono altro che applicazioni dettate dalla nostra fantasia, perché lo stampo può essere uno, però le varianti sono infinite, e allora il fiorellino se vanno i fiori, il geometrico, il bombato quando la gente vuole cose estreme, il piatto un po’ alla Picasso.
Il tutto poi si divide in vari settori: c’è l’oreficeria base, la classica catenina; quella “a peso”, che comprende una gamma vastissima di oggetti, orecchini, collane, bracciali, e che però è fatta in modo abbastanza meccanico. Poi c’è la gioielleria in cui cominciano a entrare i brillanti e l’alta gioielleria, destinata, in pratica, solo al mercato arabo o alle varie principesse. Tutto quello che si fa in oro si può fare anche in argento e in ottone. Viene considerata facente parte dell’oreficeria anche la bigiotteria in argento, perché si usano comunque pietre fini e materiali abbastanza alti. Infine c’è la bigiotteria vera e propria, fatta principalmente in ottone con materiali a basso valore, però strettamente legata alla moda del momento: il classico oggetto usa e getta, basso costo, tanta scena…

L’azienda dove lavoro oggi è nata come oreficeria, ma col tempo è passata alla bigiotteria in argento. La scelta dell’argento è avvenuta 4-5 anni fa, quando non ci sono stati più i fondi sufficienti per sostenere l’oro. Tanti si vergognano, ma non c’è niente di cui vergognarsi a dire: “Prima montavo brillanti adesso monto vetri”. Ormai poi copiano anche nell’argenteria. E, attenzione, i cinesi sono solo gli ultimi arrivati, prima abbiamo avuto i turchi, gli israeliani, gli spagnoli, i giapponesi, i thailandesi per quel che riguarda le pietre, gli indiani. Cioè il lavoro che facevamo noi una volta (appunto i cinesi di turno, quelli a basso costo) ora lo fanno i paesi emergenti. Del resto da noi un operaio specializzato che riesca a portarti un oggetto dall’inizio alla fine, costa cento volte un operaio di là. Là col sacco di riso o coi 100 dollari al mese, pagano tutti. Così non è possibile stare in concorrenza.
Loro vengono qui, ci comprano le campionature, se le portano di là, dopodiché su mille lavoranti trovano sempre quello che riesce a riprodurle. E così le possono proporre nei mercati, tipo quello americano, dove ci sono agevolazioni doganali, a metà del nostro costo. La materia prima costa sempre uguale. E’ proprio sul lavoro che noi non riusciamo più a competere. E mi sembra che proprio Grillo abbia fatto la battuta più bella: “Vogliamo frenare la Cina? Mandiamogli tre mesi i sindacati”. Finito il problema.
Se sono entrati anche localmente? Beh, non fanno oro qui, ma portano la loro produzione a vendere. Fabbriche no, però in compenso per poter dichiarare di far vetro di Murano hanno comprato una fornace nell’isola, perché esiste una legge per cui fuori dall’isola non si può dichiarare vetro di Murano. E così, con una fornace a Murano, lo fanno anche in Cina dichiarando che viene di qua. Questo è anche il nostro permissivismo. Loro hanno mille barrie ...[continua]

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