Pierre Vidal-Naquet, nato a Parigi nel 1930, è uno dei maggiori storici viventi della Grecia antica. Direttore di studi alla celebre Ecole des hautes études en sciences sociales, è uno degli esponenti più originali di una scuola che unisce la storia sociale all’antropologia culturale, l’analisi dei miti a quella della produzione letteraria. E’ assai noto anche in Italia, dove alcuni dei suoi libri sono stati tradotti nel corso degli anni: Mito e tragedia nella Grecia Antica (con J.-P. Vernant), Einaudi; Economie e società nella Grecia antica (con M. Austin), Boringhieri; Il buon uso del tradimento. Flavio Giuseppe e la Guerra giudaica, Editori Riuniti; Il cacciatore nero, Editori Riuniti. Ha diretto il Nuovo Atlante Storico, pubblicato in Italia da Zanichelli.
Ebreo francese, figlio di Marguerite Valabrègue, uccisa ad Auschwitz nel ’44 e di un capo della Resistenza che venne torturato dalla Gestapo a Marsiglia e giustiziato lui pure ad Auschwitz, Pierre Vidal-Naquet è stato protagonista attivo della lotta contro la guerra di Algeria (venne sospeso dall’insegnamento). Il suo primo libro, L’affaire Audin, del 1958, era una ricostruzione, e una denuncia insieme, del caso di un matematico francese scomparso ad Algeri, in realtà torturato a morte dai paras. Più tardi si è battuto contro la tortura nel mondo e da molti anni ha dedicato le sue energie alla storia del popolo ebraico, alle persecuzioni da esso subite, ai fenomeni di antisemitismo ricorrenti. Decisivo è stato il suo impegno nella confutazione minuziosa delle menzogne del revisionismo storico a proposito dei campi di sterminio. In questo campo ricordiamo che sono disponibili in italiano la raccolta di saggi Gli ebrei, la memoria e il presente e il recentissimo Gli assassini della memoria, entrambi pubblicati dagli Editori Riuniti. L’abbiamo incontrato a Bologna, insieme a Gianni Sofri che lo accompagnava. I brevi interventi di quest’ultimo, durante l’intervista, sono riportati in corsivo.

Professor Vidal-Naquet, noi troviamo sempre più inquietante che i dubbi o addirittura la negazione si vadano insinuando sempre più apertamente nelle discussioni sullo sterminio. E d’altra parte anche parlando con dei giovani, abbiamo avuto l’impressione che in Europa, e persino in Israele, affiori nei più giovani una certa insofferenza verso il racconto dello sterminio ascoltato a scuola. Questo ci ha colpito.
Credo che il problema in Israele vada considerato diversamente che altrove. E il problema, in Israele, non si può riassumere meglio che citando un film fatto da un mio amico israeliano che si chiama Eyal Siwan, il cui sottotitolo francese è "Les esclaves de la mémoire", "gli schiavi della memoria". In Israele ci sono tre giorni, legati fra di loro, che occupano un posto fondamentale nel sistema educativo israeliano: il giorno di Pasqua che festeggia la liberazione dall’Egitto, il giorno della Shoah e il giorno dell’Indipendenza. Fra l’altro il film, paradossalmente, è stato girato in un liceo che porta il nome di René Cassin, un ebreo francese che ha avuto il premio Nobel per la pace e che rappresentava il massimo dell’assimilazione. Cassin somigliava al Padre Eterno nei disegni di Jean Eiffel, che era un disegnatore a cui piaceva rappresentare il paradiso terrestre con un vecchio dalla barba bianca... Così era René Cassin, era il Padre Eterno.
In questo liceo si vede che tutti i ragazzi devono collegare questi tre giorni, devono sapere che sono stati schiavi in Egitto, che esiste una sola liberazione ed è Israele, che hanno subito la Shoah e che nel futuro c’è un solo modo per evitare la Shoah ed è Israele, e naturalmente tutto ciò culmina con il giorno dell’Indipendenza. Con questi tre giorni, cioè, è stata creata una memoria obbligatoria per ogni giovane israeliano e tutto ciò è a mio parere molto pericoloso perché fissa la gente sul passato e non è rimanendo fissati sul passato che si andrà avanti. Come diceva Jaurès, è andando verso il mare che il fiume è fedele alla propria sorgente.
Questo per quanto riguarda Israele. E altrove?
Altrove siamo nel momento in cui si effettua il passaggio dalla memoria alla storia.
Questo significa che la mia generazione -io ho quasi sessantatre anni, ne avevo quindici quando sono tornati i deportati- è l’ultima che ricorda. Già per i miei figli sono cose che si leggono nei libri e che si raccontano a casa, ma non è la loro memoria. Penso che questo vada accettato come inevitabile, ma il problema che mi interessa è un pr ...[continua]

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