E’ scritto nel Talmud che per ogni generazione esistono trentasei giusti nascosti e che grazie ai loro meriti il mondo continua a sussistere; il racconto, saggio e suggestivo, è stato accolto dalla Kabbalàh e attraverso i chassidim è giunto fino al nostro tempo, ripreso da Martin Buber e poi da Abrahm Heschel. Un mito? I nostri rapporti umani sono così minacciati e contraddetti, che finiscono sempre per subire anch’essi, come le cose, la fatale legge dell’entropia. Si precipita nella delusione, nella durezza, nell’indifferenza, nella disperazione. A meno che non ritornino i giusti che riavviano la storia con un amore creativo, più forte dell’odio e più forte del pregiudizio innescato dall’odio, dalla reazione ad esso. Spesso pagando con la vita. Qualcosa di simile dev’essere avvenuto con i sette monaci trappisti, cistercensi di stretta osservanza, sequestrati e poi uccisi da un commando islamista in Algeria, a Médéa, il 21 maggio ’96. Conoscerli e imparare da essi è forse il modo più giusto per dare senso al nostro tempo.
Monaco, dal greco monos, unico, solo. Sempre, abbiamo almeno vagamente pensato che si trattasse di una vocazione di separazione dal mondo, di isolamento in una interiorità mistica alla ricerca dell’Unico, dell’Assoluto. Dimentichi del mondo e delle sue cure. Leggendo i diari di padre Christian siamo contraddetti: "Ho dato la mia vita a Dio e a questo paese". Un monaco innamorato di un popolo, di cui condivide fino in fondo le prove e la storia. Fino a legarsi religiosamente con un voto di stabilità al luogo e alla comunità, con una fedeltà che costerà tutto, fino all’accettazione della morte. Un altro di loro, padre Christophe, giovane rivoluzionario del maggio francese del ’68, aveva scritto: "Un monaco è notturno. Come giungere all’intercessione se non smetto di preoccuparmi di me stesso?" Anche per lui la vita aveva senso solo se donata; il Dio del silenzio e della notte rinvia sempre agli uomini del giorno, della vita. Anche se questo dono di sé dev’essere consumato nella pazienza del quotidiano: "Noi abbiamo dato il nostro cuore ’all’ingrosso’ a Dio, e ci costa molto che ce lo prenda al dettaglio". Per comprendere la profondità di questo impegno, conviene leggere il testo della lettera che padre Christian intendeva inviare a Sayat-Attya, il capo del Gia (gruppo islamico armato) che si era presentato al monastero la notte di Natale del ’93. "Fratello, permetti che mi rivolga anche a te, da uomo a uomo, da credente a credente. Nel conflitto che il paese vive attualmente, ci sembra impossibile prendere partito. La nostra condizione di monaci ci lega alla scelta che Dio ha fatto di noi, che è per noi la preghiera e la vita semplice, il lavoro manuale, I’accoglienza e la condivisione con tutti, soprattutto i più poveri. Queste ragioni di vivere sono una scelta libera per ciascuno di noi. Esse ci impegnano fino alla morte. Voi mi capirete. E che l’Unico di ogni vita ci conduca! Amen". Quando il gruppo si era presentato armato, il padre priore l’aveva affrontato: "Questa è una casa di pace, mai nessuno è entrato qui con le armi. Se volete parlare con noi, entrate, ma lasciate le armi fuori". Così, si tirarono in disparte e si misero a parlare vicino al portone che dava sulla via esterna. Il gruppo armato cercava di obbligarli a "collaborare" richiedendo aiuto medico, appoggio economico e logistico: "Noi non vogliamo questo governo, che è corrotto e senza religione. Bisogna instaurare un governo islamico". E padre Christian aveva risposto: "Frère Luc potrà curare i malati o i feriti che verranno al dispensario, per questo non c’è difficoltà, perché Frère Luc cura tutti quelli che hanno bisogno, senza differenze. E per le medicine, egli dà a ogni malato ciò che gli è necessario".
Dopo questa prima visita, conclusa con un "ritorneremo" che non lasciava dubbi, il prefetto di Médéa aveva offerto una protezione armata, ma i monaci avevano rifiutato perché volevano essere un segno di pace per tutti. Avevano solo accettato di chiudere le porte dalle 17,30 alle 7,30 del mattino e di avere una linea telefonica collegata all’abitazione del guardiano. Già in precedenza, il Nunzio Apostolico li aveva invitati a trasferirsi per sicurezza alla nunziatura, ma anche allora avevano rifiutato. Questa volta però il pericolo era divenuto più immediato e concreto. E più terribile: si sapeva bene che Sayat-Attya, dieci giorni prima, aveva dato l’ordine di sgozzare dodici croati cristiani come rappresaglia per i musulmani maltrattati in Bosnia. In comunità era maturata in tutti la ferma decisione di non partecipare in alcun modo alla lotta e di riconfermare la scelta religiosa di stabilità. Un segno chiaro di vicinanza e condivisione al popolo algerino e una testimonianza di comunione per la piccola chiesa locale: restare come profeti disarmati e non protetti per via del Vangelo.
Aveva scritto padre Christian: "Presenza della morte. Tradizionalmente essa è una compagna assidua del monaco. Questa compagnia ha acquistato una incisività più concreta con le minacce dirette e gli assassinii avvenuti nelle vicinanze, certe visite... Si offre a noi come un test di verità utile, e non molto comodo". Sapevano bene che non potevano partire perché il popolo aveva bisogno di speranza. Moussa glielo aveva ricordato: "Se voi partite, il vostro sperare ci mancherà, e noi perderemo il nostro". La speranza contro la paura dell’indomani, della morte, della guerra civile; dell’islam di quei credenti tentati dall’intolleranza.
Si è arrivati così al marzo del ’96, quando un commando di una ventina di terroristi è entrato nel monastero e ha sequestrato i sette monaci. Un mese dopo, con il comunicato n.43, l’emiro del Gia afferma: "I monaci che vivono con la gente la allontanano dal cammino di Dio, incitandola ad abbracciare il Vangelo". Poi viene l’avvertimento: se i prigionieri del Gia non verranno liberati, i monaci saranno uccisi. "A voi la scelta. Se voi mettete in libertà, noi metteremo in libertà. Se voi rifiutate, noi sgozzeremo. Lode a Dio". Davanti alla nettezza spietata di questo messaggio, torna alla mente quanto padre Christian aveva scritto poco più di un anno prima: "Non c’è amore più grande che donare la vita per coloro che si amano. Queste parole di Gesù non illuminano solo l’ultimo giorno della vita. Nelle nostre relazioni quotidiane, scegliamo apertamente il partito dell’amore, del perdono, della comunione, contro l’odio, la vendetta, la violenza" (lett.15.5.94) "La vita del monaco non è che una lunga educazione alla logica del Regno di Dio. Non c’è vero amor di Dio, senza acconsentire, senza riserve, alla morte" (19.3.95). E con maggior forza, le splendide parole del suo testamento. Erano monaci preparati alla morte e pronti al perdono. Infine, il comunicato n.44, l’ultimo: "Il Presidente francese e il suo Ministero degli affari esteri hanno dichiarato che non avrebbero dialogato, né negoziato con il Gia. Essi hanno interrotto quello che avevano cominciato e noi abbiamo tagliato la gola ai sette monaci, fedeli al nostro impegno. Lode a Dio. Ciò è stato eseguito questa mattina, 21 maggio 1996". La durezza di questo testo non ci deve impedire di ascoltare la voce più alta delle vittime. Proprio il giorno prima di essere sequestrato, Frère Luc, il medico del gruppo, aveva scritto: "Qui la violenza è sempre allo stesso livello. Come venirne fuori? Non penso che la violenza si possa estirpare con la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagine dell’Amore, quale si è manifestato nel Cristo che ha voluto subire la sorte dell’ingiusto". I sette monaci erano quindi consapevolmente pronti a seguire l’esempio delle altre vittime degli ultimi anni: dodici croati, quattro suore, quattro Padri Bianchi, poi ancora due suore e infine due "piccole sorelle di Gesù". Voci che gridano più forte dei loro assassini, e che dicono a tutti: "Basta col sangue!".
L’offerta dei monaci, la loro volontà di rimanere in quella terra anche a rischio della vita, non può assolutamente essere letta come atto di accusa per nessuno. I martiri non reclamano vendetta, chiamano a cambiar vita; trascendono i nostri modi di vedere, vedono più in là di noi. Meno che mai, poi, questi martiri d’Algeria si fanno accusatori di un popolo: i terroristi non sono quel popolo che poi ha seguito commosso i funerali, semplici e prudenti, che hanno sepolto quei corpi nel giardino del monastero. Musulmani che piangevano cristiani: "So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. E’ troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti". E ancora: "Ecco che potrò, se piace a Dio, contemplare con Lui i suoi figli dell’islam come Lui li vede, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione giocando con le differenze". E questo vale anche per i cristiani d’Europa.
don Sergio Sala