A proposito del seminario e della tavola rotonda sul tema: “Dittatura, guerra e memoria collettiva”, svoltosi il 25 gennaio scorso, presso il Goethe Institut di Torino in collaborazione con la Comunità ebraica nel numero di febbraio Una città riportava per esteso gli interventi di Christoph Miething e Dario Calimani in quel convegno.
Credo meriti soffermarsi su questi due scritti: prima di tutto sull’intervento di Miething, fondatore e direttore del centro di ricerche Romana-Judaica presso l’Università di Munster, le cui affermazioni, dice Guido Fubini su Ha Keillah, “forse per le difficoltà della traduzione simultanea non sono state chiaramente comprese da una parte del pubblico, che non ha saputo vedere la differenza fra la responsabilità che investe il dovere della memoria e la colpa dell’accadimento dei fatti ricordati di cui vengono investite le generazioni successive”.
Io penso invece che il pubblico abbia capito benissimo il problema sollevato da Miething; gli ha risposto indirettamente Dario Calimani, in quello stesso convegno, con una relazione su “scrittura e monumento”, intervenendo poi anche polemicamente e a caldo su quanto aveva detto Miething.
Il problema sollevato da Miething investe frontalmente il tema della memoria in Germania. Miething prende spunto dalla decisione del Parlamento tedesco di realizzare un monumento in memoria dello sterminio degli ebrei in Europa a Berlino.
Il progetto dell’architetto americano Peter Eisenmann prevede che in un’area grande quanto un campo di calcio sorga una necropoli simbolica costituita da 4000 pilastri alti fino a 7,5 metri, posti a breve distanza l’uno dall’altro, quali stele funerarie, memoria della morte e monito sempre presente della catastrofe causata dal regime nazista. Cristoph Miething pone con chiarezza gli interrogativi che questa decisione ha suscitato in Germania e il rapporto tra questa simbologia e il passato tedesco. Egli ricorda che la sinistra tedesca ha sostenuto in tante occasioni “la necessità di una piena assunzione di responsabilità nei confronti della storia” e la richiesta di “mantenere viva la memoria della barbarie nazista”, perché questo ricordo è parte della coscienza critica del popolo tedesca. Ma ha anche ricordato che la destra nazional-conservatrice ritiene invece che “la memoria della Shoah ostacola il ritorno alla normalità della Germania, e offusca un autoritratto positivo della medesima”. Miething non sta ovviamente da questa parte politica, ma neppure esattamente dall’altra.
Egli ricorda la posizione assunta al riguardo da uno dei maggiori romanzieri tedeschi contemporanei, Martin Walser. Questi, ben prima della fine della lunga rimozione di questo tema, cagionata dalla guerra fredda, era stato tra quei pochi che si erano “apertamente dichiarati contro la cancellazione della memoria della sciagura nazista”. Tuttavia la sua presa di posizione su come un tedesco debba convivere con la propria storia e in particolare con il ricordo di Auschwitz aveva scatenato una forte polemica in Germania, che era iniziata con le accuse di Ignaz Bubiz, I’allora presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, a Walser ed era proseguita con un pubblico dibattito che coinvolse particolarmente il progetto del monumento di Berlino.
Walser in un pubblico dibattito, presente Bubiz, aveva detto che ne aveva abbastanza di vedere in tv documentari sulla Shoah.
Miething dichiara di condividere le opinioni di Walser che, pur partendo dal riconoscimento “che dopo Auschwitz ci possa essere una coscienza tedesca completa solo con riferimento al destino degli ebrei”, afferma che la ritualizzazione del ricordo di Auschwitz, “la monumentalizzazione della vergogna” tedesca è “un abuso politico e morale a cui ci si deve ribellare, perché è la coscienza personale di ogni tedesco, la sua libera convinzione morale ad aver l’obbligo di ricordare, mentre la ritualizzazione del ricordo ne distrugge la sua sostanza morale, e ne favorisce la strumentalizzazione politica”. Ora in Germania il problema, secondo Miething, è come uscire dall’alternativa distorcente per cui uno si sente tacciare di appartenenza estremistica se dichiara il suo orgoglio di essere tedesco, mentre appare un traditore della patria se dice di avere qualche difficoltà nel riconoscersi come tedesco. Il che significa che non è stato raggiunto un consenso sul come rapportarsi alla propria identità collettiva e “quale forma di coscienza nazionale si debba adottare ...[continua]

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