Se qualche anno fa ci fosse stato detto che il più grande stupro di massa contro donne israeliane sarebbe stato ignorato, negato, sottovalutato o “contestualizzato” da femministe di tutto il mondo, molti di noi avrebbero stentato a credervi. L’attenzione nei confronti dei femminicidi coinvolge ormai anche gli uomini, eppure il 7 ottobre non ha destato, nell’ambito del femminismo di sinistra, particolare indignazione: tranne poche ma importanti eccezioni, la maggioranza dei gruppi femministi ha scelto la linea del silenzio. A poco è servito tradurre e diffondere il report speciale dell’Association of Rape Crisis Centers in Israel intitolato “Silent Cry, sexual crimes in the October 7 war”, che contiene informazioni e descrizioni dettagliate degli abusi sessuali, delle torture e degli omicidi perpetrati dai terroristi di Hamas e di alte fazioni, oltre che da alcuni civili che li seguivano, sul territorio israeliano. Le coscienze di tante femministe non sembrano esser state interpellate neppure dall’oscena spettacolarizzazione a cui, in occasione del loro rilascio, sono state sottoposte (al pari degli altri rapiti) le donne tenute prigioniere per quasi 500 giorni.
In nome dell’antisionismo e dell’intersezionalità, la violenza sulle donne israeliane (e su chiunque si trovasse a loro fianco) viene ritenuta un incidente da ricondurre a un più generale contesto di lotta anti-coloniale. Come osserva il filosofo francese Alain Finkielkraut, se ieri l’antisemitismo si basava sul razzismo, oggi sembra trarre linfa da una certa concezione dell’antirazzismo, vuoi perché l’ebreo/a israeliano/a è sussunto/a alla categoria di “bianco occidentale” (in modo, peraltro, del tutto arbitrario per chiunque conosca Israele), vuoi tradendo l’antica ostilità anti-giudaica verso un popolo accusato di non “assimilarsi”, ossia -in parole povere- di non dissolversi. L’affermazione, al centro della teoria dell’intersezionalità e di per sé condivisibile, di non essere tutte, in quanto donne, oppresse nello stesso modo, si traduce in un rigido binarismo che vede solo oppressi e oppressori. In definitiva, per queste femministe, le ebree israeliane “se la sono cercata”: colpevoli, al pari dei loro connazionali, di essere lì, nei confini di uno stato che non viene considerato legittimo. Il 7 ottobre appare così come l’inizio di una lotta di “liberazione” dove la parte palestinese è ridotta, tradendo una visione paternalistica, a vittima strutturale, senza interrogarsi sulle responsabilità delle dirigenze arabe, a partire dai reiterati rifiuti dai primi del Novecento in avanti verso qualunque proposta di compromesso territoriale. Israele, il cui nome viene cancellato sotto l’etichetta di “entità sionista”, viene intesa come prodotto del razzismo e del colonialismo. Lessico che, con un tocco glamour che strizza l’occhio all’ideologia egemone in parte del mondo accademico, non fa altro che resuscitare le categorie della propaganda sovietica (a suo tempo fatta propria anche dalla sinistra non-stalinista) successiva alla guerra dei Sei Giorni, ove Israele veniva ridotta ad “avamposto dell ...[continua]
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