Se l’Europa debba riarmarsi e, se sì, come, è una domanda che sta dividendo trasversalmente, soprattutto in Italia, l’opinione pubblica e anche i partiti, sia di destra, sia di centro, sia di sinistra. Ognuno deciderà da che parte stare. È però importante cercare di riflettere sulle alternative che comportano etiche, scelte morali e pratiche, tra loro attualmente non conciliabili, oppure conciliabili soltanto in una prospettiva temporale non appiattita sul presente. 
Su 58 milioni la popolazione italiana che ha qualche ricordo personale della Seconda guerra mondiale non supera i due milioni, quindi meno del 4%. Per il restante 96% della guerra si possono aver ascoltato i racconti dei nonni o dei genitori, si sono visti film e si sono letti, forse, i libri di storia e i romanzi che narrano le vicende di quel periodo. Per 80 anni non ci sono state guerre sul territorio del paese, mentre molte erano state quelle dei secoli precedenti che avevano visto la formazione dell’unità nazionale (per Italia e Germania) e, nel XX secolo, le due guerre mondiali, nate e combattute prevalentemente in terra europea. Assenza di guerre vuol dire assenza di mobilitazione di truppe, assenza di morti sul fronte e tra la popolazione civile, assenza di distruzioni di città, di occupazioni militari, assenza di vittime, di eroi, di imboscati, di renitenti alla leva, di diserotori. Ma anche svalutazione dell’esaltazione delle “virtù” associate alla guerra: l’orgoglio, il coraggio, il disprezzo del pericolo, la disponibilità al sacrificio per amor di patria. 
Non dimentichiamo però che la pace dopo il ’45 e fino alla caduta del muro di Berlino è stata possibile perché le due grandi potenze che allora disponevano di armi nucleari hanno evitato di confrontarsi e di mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’umanità e perché gli stati europei hanno costruito un’unione pacifica, ancorché debole, sia tra di loro, sia nei confronti dei loro vicini. Hanno cioè escluso la possibilità dell’uso delle armi all’interno di una area che nel tempo si è venuta allargando. È stata un’epoca di pace armata in un equilibrio bipolare. 
Successivamente, si è assistito alla proliferazione degli stati che dispongono di armi nucleari di distruzione di massa (attualmento sono nove) e col loro numero aumenta il rischio che qualcuno ne faccia uso e il terrore delle possibili conseguenze per tutti. Peraltro la Russia di Putin non ha esitato a usare la minaccia dell’arma atomica. L’Europa si è allargata dai sei stati iniziali ai 27 attuali, attirando i paesi che erano stati governati da dittature (Spagna, Portogallo e Grecia) e i paesi che si erano liberati dalla sudditanza alla Russia sovietica. Il Regno Unito ha prima aderito e poi si è di nuovo allontanato dall’Unione europea. Tutto ciò è stato possibile anche perché, col patto Atlantico, la protezione degli stati europei veniva assicurata dall’ombrello nucleare americano. 
Il dato di fatto è che, in ogni caso, in questa parte d’Europa (esclusa però l’area balcanica della ex-Jugolavia) la memoria della guerra non è più affidata alle donne e agli uomini che la abitano. È vero che le guerre hanno circondato anche questa parte di mondo, dalla Corea al Vietnam, dall’Algeria a Israele e Palestina, senza dimenticare il Ruanda, l’Irak e molte altre. Ma un conto è guardare la guerra al cinema o al telegiornale, sui rotocalchi o addirittura sullo schermo dei tablet con i war games e un conto è sentire intorno le esplosioni, vedere le case crollare e i morti lungo le strade e sperimentare i sentimenti della paura, la sofferenza propria e dei propri cari, la devastazione di tutto ciò che per noi ha un valore. Non viviamo in un mondo di pace, ma viviamo in un’area protetta che è stata pacificata. La guerra è fuori, non dentro casa. Almeno per noi, per questo non piccolo angolo di mondo, la pace è data per scontata, se non guardiamo tanto intorno ci facciamo l’idea che sia lo stato naturale delle cose e che qualcuno possa metterla a repentaglio ci sembra assurdo. 
A molti, ad esempio, sembra assurdo che in questo mondo, per garantire la pace, si debba disporre di armi. Bisogna riconoscerlo, quando la presidentessa della Commissione Europea ha lanciato il programma “re-arm Europe”, c’è stato in molti un moto emozionale di rigetto, come se parlare di sicurezza fosse già un atto aggressivo, una disponibilità a combattere. Qualcuno ha preso il vecchio motto latino si vis pacem, para bellum come un’assurda ...[continua]

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