Antonio Gramsci è stato in Italia il pensatore più originale, colto e appassionato fra gli uomini politici tra socialismo e comunismo all’inizio del secolo scorso. In quanto tale può ormai essere letto soprattutto come un intellettuale e un saggista, anche mettendo in secondo piano la sua attività politica fino al 1926, anno nel quale Mussolini lo fece arrestare e poi condannare a venti anni di carcere. Morì nel 1937, e quanto ha scritto in stato di reclusione nei suoi quaderni di appunti e nelle sue lettere costituisce una delle opere più culturalmente significative del Novecento. Del resto la cultura è sempre stata al centro della sua riflessione politica, al punto che i suoi critici “operaisti” degli anni sessanta (Tronti, Asor Rosa e seguaci) hanno giudicato Gramsci non sufficientemente marxista a causa del rilievo che ha dato alla cultura nella strategia del movimento operaio.
Nel suo pensiero il concetto di egemonia culturale e sociale che la classe operaia doveva sviluppare e imporre come presupposto dell’azione politica rivoluzionaria, è un concetto centrale. Se la classe operaia organizzata partiticamente non ha conquistato un’autorità ideologica nel tessuto sociale, non potrà realisticamente aspirare a divenire classe dirigente dell’intera nazione, ottenendo il consenso, o comunque il rispetto, della maggioranza della popolazione. Nei suoi Quaderni del carcere Gramsci vede l’egemonia culturale nella società civile come complementare e preliminare al dominio politico che una classe può esercitare attraverso lo stato. Dato che la gramsciana strategia tende a escludere in linea di principio una rivoluzione come “colpo di stato” compiuto da una ristretta avanguardia decisionista, il percorso egemonico ha bisogno della cultura, degli intellettuali e della comunicazione letteraria e giornalistica. In quanto lui stesso intellettuale marxista e pensatore rivoluzionario, Gramsci non può trascurare il ruolo politico degli intellettuali. Nelle sue pagine dedicate al materialismo storico e alla filosofia di Benedetto Croce si legge:

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea” propria di “tutto il mondo”, e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folclore”.
(in Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi 1966, pp. 3-4)

È questo il modo in cui Gramsci concepisce cultura, coscienza, pensiero e filosofia in senso lato nella vita individuale e sociale. Nessuna politica può quindi prescindere dalla cultura diffusa, consapevole e anche inconsapevole. Usando nei suoi Quaderni del carcere la formula “filosofia della prassi” invece che “marxismo” e “materialismo storico”, Gramsci estende efficacemente la cultura a tutta la vita sociale e quindi a un’azione politica che voglia trasformare, rivoluzionare tutta la società, classi, istituzioni, gruppi e individui. Introducendo nella politica la filosofia a partire dalla domanda “che cos’è l’uomo?” si annunciano la questione e il compito dell’egemonia culturale nella vita sociale, nella società civile e infine nello stato. Più precisamente:

La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche.
(Quaderno 6, paragrafo 79, in Le opere, a cura di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti 1997, p. 240)

Con queste osservazioni solo in apparenza marginali e occasionali Gramsci mostra tutta l’importanza che come politico e come intellettuale attribuisce all’individuo, alla coscienza, all’interiorità, volontà, rigore e onestà morale. Questa decisa implicazione della cultura, dell’intellettualità, della coscienza individuale e della discussione nella politica e nell’organizzazione partitica, Gramsci prende le distanze dal bolscevismo e dalla sua teoria e prassi del partito rivoluzionario, valorizzando la riflessione e la maturazione culturale nel processo e nell’esercizio del potere politico. La centralità dell’idea di egemonia nella teoria di Gramsci modifica il concetto stesso di dominio e di potere politico, intesi, in senso ristretto, come controllo di apparati statali di tipo coercitivo. La trasformazione della società civile per via culturale deve precedere quindi la presa del potere statale. Dopo una rivoluzione non si potrà dominare e dirigere a lungo l’intera vita sociale se la presa del potere viene limitata agli apparati statali. Rivoluzione reale vuole dire per Gramsci gradualità e “guerra di posizione” con cui il proletariato realizza un sociale “blocco storico” che sostituisca con l’egemonia proletaria l’egemonia borghese.
Proprio in quanto lui stesso intellettuale politico di tipo nuovo, armato di una “filosofia della prassi” alternativa a ogni altra filosofia, Gramsci connette all’idea di egemonia sociale da conquistare il ruolo politico degli intellettuali: non si oppongono politici e intellettuali, ma si intellettualizzano i politici facendone dei filosofi alternativi ai filosofi borghesi. Sempre negli scritti dedicati al materialismo storico e alla filosofia di Croce si incontrano queste precisazioni:

Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quindi innanzitutto come critica del “senso comune” (dopo essersi basata sul senso comune per dimostrare che “tutti” sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di “tutti”, ma di innovare e rendere “critica” una attività già esistente). La filosofia della prassi non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di masse e non solo di scarsi gruppi intellettuali.
L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo si trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto con il suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica [...]. La comprensione critica di sé stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale [...]. Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali [...]. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e di ritirate [...]. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-masse [...]. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui fra massa e intellettuali (o certi di essi, o gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto.

In queste teorizzazioni di Gramsci la cosa oggi più evidente è l’assenza di riferimenti alla produzione industriale di cultura e di ideologia: alla crescita nel Novecento di una industria della cultura e della coscienza che cattura direttamente la coscienza di massa senza passare attraverso la mediazione degli intellettuali in quanto gruppi e ceto sociale. In Italia una tale industria era ancora scarsamente sviluppata negli anni in cui Gramsci scrive. Del resto anche più tardi, dalla fine degli anni Cinquanta e Sessanta in poi, sebbene si imponga una industria culturale o industria della coscienza, la sinistra politica italiana è rimasta a lungo sorda al rapporto neocapitalistico o tardo capitalistico tra classe operaia e merci culturali, fra consumi culturali e politicizzazione. Nel Duemila il ruolo politico degli intellettuali si è drasticamente ridotto e la classe operaia si è culturalmente trasformata entrando a far parte di una più estesa classe media “piccolo borghese”.