In un mondo in dissoluzione, che senso hanno le parole, le immagini, i discorsi? Quanto segue non è una visione apocalittica dell’Universo ma un tentativo di raccontare alcuni tratti di questo periodo, iniziato grosso modo con la globalizzazione, e di proporre un’ipotesi di resistenza. E quindi di raccontare e argomentare la necessità e il valore di una rivista come “una città”.
No, non siamo alla fine del mondo, ma “solo” alla fine di un mondo, viviamo in un’epoca in cui non scompare il “vecchio” universo, ma dove invece il mondo che abbiamo conosciuto sta radicalmente cambiando. E così abbiamo difficoltà perfino a comprendere o stabilire i nessi fra causa e effetto. Un po’ è questione delle tecnologie e degli strumenti che usiamo nella vita di tutti i giorni: chiunque abbia conseguito l’esame di guida per la patente sa come funziona il motore a scoppio, ma quanti di noi sono in grado di comprendere il funzionamento di un algoritmo? Ma poi c’è una questione etica, politica e ontologica. Per dirla in una maniera radicale: il paradigma illuministico è in grave crisi (taluni dicono che è caduto), per cui il mito del progresso non funziona più; il futuro non è l’aurora della speranza ma una notte buia e che fa paura, e la scienza non solo ha cessato di essere “esatta” e “oggettiva”, ma da sempre più persone viene considerata un inganno. In un periodo di crisi dei saperi e di predominanza dei poteri economici a scapito della politica, non c’è da stupirsi della crisi di quello che Hannah Arendt chiamava “lo spazio pubblico”.
O per citare Zygmunt Bauman: assistiamo al divorzio fra politica e potere, per cui i politici possono solo fare promesse che sanno di non potere mantenere. Alla domanda su cosa si potesse fare in questa situazione, Bauman rispondeva, rimandando a sua volta ad Arendt: nei tempi bui, occorre tenere acceso il lume della ragione. In altre parole e usando il filtro dei testi di Walter Benjamin, possiamo dire che dobbiamo salvare la memoria di quello che una volta chiamavamo il futuro.
Tuttavia, Bauman parlava prima della pandemia e -soprattutto- prima dell’attacco di Putin all’Ucraina. Ecco, le sinistre sono -semplificando- almeno due. L’una considera l’umanità come un tutt’uno indivisibile; l’altra vede il genere umano diviso per identità date, trasmesse per via ereditaria. L’una è internazionalista (seppur capita che scambi l’internazionalismo per la globalizzazione), l’altra invece pone al centro della riflessione l’anti-imperialismo e tutte le istanze che si oppongono all’Occidente (sebbene capita che critichi l’Occidente a ragione). Le radici di ambedue sono lunghe e profonde. La prima si nutre del pensiero illuminista, delle intuizioni di Marx e via elencando; l’altra adora l’immaginario romantico e le intuizioni di Herder e dei suoi seguaci.
Nei primi anni del secolo scorso, quando in Europa del Centro maturava la crisi dei tre imperi: lo zarista, l’asburgico e l’ottomano, la prima sinistra produceva l’austromarxismo, l’idea per cui l’appartenenza a un gruppo linguistico (che qualcuno traduce in “etnico”) non dovesse essere legata al possesso di un territorio. La seconda sinistra invece era ossessionata dalle definizioni di che cosa fosse la nazione: celebre la definizione di Stalin, uno dei più grandi classificatori delle etnie.
Oggi, i termini della discussione sono mutati, ma la sostanza è sempre quella. Brutalmente: siamo internazionalisti o antimperialisti? Pensiamo all’Occidente come a un deposito di storie e miti, quindi modificabile attraverso diverse narrazioni e lotte, o invece l’Occidente è un insieme di valori -traditi da chi è al potere- oppure “finti” e declamati per ingannare il “popolo”, anzi “i popoli”? A margine, il pensiero di intellettuali sofisticati e dalle riflessioni sfaccettate come Frantz Fanon ed Edward Said, da pensiero critico sulle ambivalenze delle identità (al plurale) degli oppressi e sullo sguardo degli oppressori che imprigiona gli oppressi in una serie di stereotipi, nella narrazione antimperialista è stato trasformato in un prontuario di affermazioni apodittiche e un tentativo di giustificazione di un’irriflessiva violenza.
Ma torniamo al punto. Abbiamo parlato di due sinistre. Però, è sempre esistita anche una sinistra eretica e libertaria (e forse non è una terza sinistra, ma parte della prima, nel bene e nel male). Una sinistra che talvolta -a torto- viene raccontata in termini “negativi”. Negativi non dal punto di vista valoriale, ma nel senso di né-né, “né con Hitler né con Stalin”- sebbene sapesse che durante la seconda guerra mondiale il nemico era Hitler. E invece quella sinistra ha prodotto un pensiero sofisticato, rivolto al futuro e soprattutto autonomo e consapevole delle contraddizioni e antinomie della Modernità. Si tratta di uomini e donne che hanno scritto e ragionato in totale indipendenza e libertà, incuranti dei veleni prodotti dal Cremlino e dai seguaci della fede moscovita e della volontà di estirpare ogni pensiero non conforme, dalle parti della commissione McCarthy a Washington. Queste persone: Hannah Arendt, Nicola Chiaromonte, Andrea Caffi, Albert Camus, per citarne quattro, non hanno cercato di vincere elezioni, fondare partiti (l’unico proponibile sarebbe stato un Partito della Solitudine). E possiamo aggiungere altri eretici: i trockisti che dal comunismo staliniano si sono spostati via via verso un socialismo radicale, libertario o democratico, e il milieu di “Socialisme ou barbarie”, da Cornelius Castoriadis a Claude Lefort. E i comunisti che avevano scoperto la democrazia liberale con elementi di radicalismo (per esempio Agnes Heller). E i coraggiosi eretici polacchi Jacek Kuron e Karol Modzelewski; e infine le femministe che insegnarono a tutti noi a “sputare su Hegel”.
La sinistra eretica ha molte carte da giocare. La prima: la sua “infedeltà”. La sinistra eretica è contaminata dai sistemi di pensiero altrui e sa che la purezza è una forma di nichilismo. La sinistra eretica non ha padrini né padroni, né lealtà da rispettare se non quella verso la propria coscienza e biografia. E poi, non ha dottrine da professare e propagare, quindi volentieri cambia opinioni. Non nega i propri errori, ma ha la capacità di trasformare le disfatte in riflessione critica.
“una città” ha prodotto ormai 300 numeri che di questo parlano: delle memorie rimosse, ingenue, minoritarie. E per 300 volte, moltiplicate per il numero di articoli e interviste, ha raccontato la realtà quotidiana filtrata da queste memorie con lo sguardo sempre rivolto verso il futuro. E del resto, la sinistra nasce come agente del futuro nel presente.
E poi, grazie a “una città” e alla Fondazione Lewin abbiamo a disposizione un vasto archivio di riviste, appunto eretiche. Da studiare, per imparare il (non) metodo: eclettico e partendo dalla contingenza, concreta, tangibile, come sono concrete le vite delle persone, come è concreta la guerra anzi le guerre in atto che solo la politica può fermare non gli slogan, per quanto affascinanti.