Ben poco fortunato in vita sia come libero scrittore e saggista che come filosofo e studioso, Walter Benjamin (1892-1940) morì suicida quando, sul confine con la Spagna, stava tentando di fuggire, lui ebreo, dalla Francia occupata dai nazisti. In rapporto piuttosto intimo ma anche contraddittorio con il più giovane Theodor Adorno, di cui era parente, e con Max Horkheimer, fondatore e leader dell’“Istituto per la ricerca sociale di Francoforte” (per alcuni anni trasferitosi negli Stati Uniti), Benjamin fu riscoperto e particolarmente valorizzato nel ventennio 1960-1980. La compresenza nella sua opera di materialismo storico e di mistica ebraica, in anni come quelli in cui era diversamente rinato un bisogno di ortodossia marxista in chiave rivoluzionaria e attivistica, giovò paradossalmente alla fortuna di Benjamin, invece che renderlo sospetto di insufficiente coerenza teorica e politica. Ma proprio per questo carattere bifronte i suoi scritti hanno continuato fino a oggi ad attrarre ambiguamente, piuttosto che a respingere, prima i giovani intellettuali politicamente militanti, poi i nuovi accademici. Una teologia della rivoluzione, infatti, è impossibile contraddirla anche quando la situazione sociale e politica è tutt’altro che rivoluzionaria.
Dopo il successo iniziale che ha avuto il suo ampio saggio del 1936 “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, considerato a torto “avanguardistico”, sembra però che il testo più magnetico e intramontabile di Benjamin sia stato e continui a essere l’aforistico “Tesi di filosofia della storia”, quasi il suo testamento, anche perché scritto nel 1939, anno che precede quello della sua morte.
Stilisticamente condensato ed elaborato, tanto suggestivo quanto spesso difficilmente decifrabile, il pensiero di Benjamin è stratificato, paradossale e costruito a intarsio. Studioso del teatro barocco tedesco e della critica d’arte romantica, Benjamin si interessò anche di Gide, Proust, Valéry, di Surrealismo e della situazione sociale e politica degli scrittori francesi di allora, tra estetismo, idealismo, nichilismo e anarchismo umanistico. Ma i suoi interlocutori più prossimi, più ancora dei “francofortesi”, furono gli inconciliabili Bertolt Brecht, dialettico marxista, e Gershom Sholem, studioso di mistica ebraica. Sullo sfondo, i suoi autori preferiti (oltre che insuperabili interpreti della modernità) Baudelaire, Karl Kraus e Kafka. Benjamin è certamente un filosofo, ma non lo è con gli strumenti più usati e convenzionali della filosofia, quanto piuttosto come interprete di opere letterarie, come commentatore e saggista. Benché non sia mai stato un pensatore sistematico, leggendolo si ha sempre l’impressione che la frammentarietà labirintica della sua opera sia animata e tenuta insieme, più che da un vero e proprio metodo, da uno stile di riflessione e da un modo di lavorare sui testi, usandoli come vie d’accesso alle forme di vita di certi momenti ed epoche della storia.
Come scrittore il suo istinto lo porta a procedere per aforismi, senza preoccuparsi di riempire i vuoti e i silenzi fra un aforisma e un altro. Di un autore e di un’opera letteraria, Benjamin esamina il carattere tecnico e nello stesso tempo cerca di far emergere il nucleo utopistico e messianico. È per questo che le sue “Tesi di filosofia della storia” sono forse il suo testo più caratteristico e rappresentativo, a partire dal suo famoso e sorprendente incipit:
Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, a ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, come è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.
(in Angelus Novus. Saggi e frammenti,
traduzione e introduzione di Renato Solmi,
Einaudi 1962, nuova edizione 1981, p. 75)
Cercherò di fare qui un tentativo piuttosto arduo: quello di chiarire un po’, magari semplificando colpevolmente, la differenza che Benjamin istituisce nelle sue Tesi, fra storicismo e filosofia della storia; fra la diffusa idea della storia come continuità graduale e progressiva (tipica del riformismo positivistico e socialdemocratico) e la storia vista in un’ottica rivoluzionaria di tipo sia materialistico che messianico. Già questi due ultimi termini, che Benjamin, forse mitologicamente, tiene insieme (la favola dell’automa e del nano gobbo), si presentano del tutto eterogenei, se non inconciliabili. Quello tentato da Benjamin, detto in breve, è un acrobatico e discutibile marxismo teologizzato, sottratto in quanto tale al giudizio che i fatti storici e la critica storica possono formulare. Teologizzando il marxismo, Benjamin ne fa una filosofia della storia fuori dalla storia. La sua favola dell’automa imbattibile giocatore di scacchi e del nano deforme che in realtà di nascosto lo manovra mette in scena un “fantoccio” e un astutissimo ma impresentabile, fiabesco individuo di quelli che abitano nascosti, si dice, nei boschi. L’uno e l’altro non sono molto credibili e quella di cui sono protagonisti è una truffa o uno scherzo. Insomma: per Benjamin il materialismo storico è un “burattino” solo in apparenza invincibile, che non lo sarebbe affatto se non ci fosse dietro di lui il nano gobbo, cioè l’impresentabile teologia mistica che è realmente invincibile.
Questa idea di Benjamin è tuttavia, benché originalissima, non poco discutibile. Che la teologia, negli anni Trenta, fosse poco presentabile come forma di pensiero lo si capisce; ma che fosse attendibile come guida di un materialismo rivoluzionario è davvero poco comprensibile. Ci si dovrebbe chiedere (e non lo si fa): qui Benjamin ragiona da mistico o da rivoluzionario?
Tutto ciò che segue dopo l’incipit appena citato è di straordinaria importanza: filosofia della storia, attese messianiche e teoria della rivoluzione. Il momento della sua vita nel quale Benjamin scrive precede di poco la sua fuga dalla Francia occupata dai nazisti, una fuga finita male, che lo spingerà al suicidio. È la disperazione che spinge Benjamin verso la teologia? Dal punto di vista teologico ogni momento presente o “tempo attuale” (jetzt-zeit) contiene, nasconde in sé il potenziale messianico di una rivoluzione capace di “redimere” l’intero passato della storia umana, vista non come continuo “progresso socialdemocratico”, ma come “balzo di tigre del passato” (parole di Benjamin) nell’oggi.
Non pretendo di venire sbrigativamente a capo del pensiero politico-teologico di un pensatore della complessità di Benjamin. Si tratta di un autore difficile ma molto letto, o citato, amatissimo nelle università di tutto il mondo dagli anni Sessanta a oggi, del quale mi sembra però che si abusi per rendere intramontabile una teoria mitologica della rivoluzione e dell’utopia comunista, che sarebbero sempre un problema all’ordine del giorno, al di qua e al di là di ogni situazione sociale e politica di fatto. Bisogna rassegnarsi a non confondere redenzione e rivoluzione.
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