Abdelrahman Musa Eltahir, Phd, è biologo, esperto di sistemi socio-ecologici, docente e ricercatore presso l’Università di Khartoum. È anche a capo di uno studio di consulenza a Khartoum per le agenzie di cooperazione internazionale e per i grandi gruppi imprenditoriali sui temi della sostenibilità ambientale. Collabora con Atlasahel.it.

Nonostante tutti i presagi di imminente guerra in Sudan tra le forze armate sudanesi (Saf) e le forze paramilitari di supporto rapido (Rsf), scommettevo che la guerra non sarebbe avvenuta, per un motivo molto semplice, che noi sudanesi non possiamo ucciderci a vicenda; non possiamo alzare una pistola in faccia contro l’altro, perché siamo persone pacifiche.
La mattina di quel fatidico giorno, sabato 15 aprile 2023, alle otto e quaranta esatte, ricevetti una telefonata dall’estero: l’interlocutore era un mio parente, era molto teso e senza gli abituali saluti mi chiese a bruciapelo: “Hai sentito degli scontri militari che si stanno verificando intorno all’aeroporto internazionale di Khartoum?”.
In realtà in quel momento da me, abito a Omdurman, a circa 10 km dalla zona degli scontri, non si sentiva nulla. Era sabato e avevo in programma di godermi quella giornata in casa con la famiglia. Ho subito acceso la tv e cercato in vari canali di notizie: quale sorpresa vedere come il centro della capitale fosse in fiamme e coperto da un denso fumo scuro!
Prima di quel giorno, la vita scorreva normale e tutti a Khartoum svolgevano i propri doveri: medici e infermieri impegnati negli ospedali, insegnanti nelle scuole, impiegati e operai nelle fabbriche e nei laboratori, contadini e pastori nei vari villaggi. Tutti, tranne l’esercito, che era impegnato piuttosto con la politica e gli affari e non ha adempiuto al dovere costituzionale di difendere il paese.
Non sono riusciti a proteggere persone, quartieri, ospedali, stazioni di acqua potabile, centrali elettriche, strade pubbliche, musei, moschee, chiese, nemmeno il Palazzo Repubblicano.
Dopo due settimane orribili sotto il rombo dei caccia e degli elicotteri, i rumori dei cannoni antiaerei e la guerriglia di strada, oltre al continuo terrore di essere attaccati di notte dai saccheggiatori, abbiamo deciso di lasciare il paese diretti a nord, con la speranza di raggiungere i confini egiziani. In quel frangente, abbiamo dovuto affrontare l’avidità dei mediatori che avevano aumentato i prezzi dei mezzi di trasporto fino a circa dieci volte il prezzo base.
Per grazia di Dio siamo riusciti a ottenere un autobus che poteva ospitare la maggior parte della nostra famiglia allargata. L’autista dell’autobus ha chiesto che fornissimo il carburante necessario per percorrere una distanza di 1.500 km, e così è stato.
Dopo esserci riuniti in un villaggio a nord di Khartoum, siamo partiti verso sera ed è iniziato il viaggio della paura, costellato di posti di blocco delle Forze di supporto rapido, che abbiamo superato senza perdite, per grazia di Dio.
Abbiamo così raggiunto la città di Halfa, al confine con l’Egitto, dopo un viaggio durato venti ore. Siamo rimasti lì per cinque giorni e cinque notti: alcuni di noi hanno trovato accoglienza nelle moschee e altri, soprattutto donne, bambini e uomini anziani, sono stati ospitati dalla gente di Halfa, grazie alla loro generosità. Poi abbiamo iniziato un altro giro di tribolazioni al confine, tanto sul versante sudanese che su quello egiziano, fino a quando non siamo riusciti ad arrivare ad Assuan dove abbiamo potuto per la prima volta riposare veramente.
All’inizio pensavamo che questa guerra fosse tra la milizia e l’esercito, ma si è presto rivelata essere una guerra in primo luogo contro la cittadinanza, contro la proprietà, contro le infrastrutture del paese, contro il patrimonio, la storia, l’educazione; contro l’umanità. Khartoum, in particolare, e alcune altre aree nell’ovest del Sudan, negli ultimi sessantacinque giorni hanno vissuto violenze sistematiche dirette contro civili disarmati attraverso uccisioni, stupri, vandalismi, rapimenti, intimidazioni, saccheggi di proprietà e denaro e occupazione di case.
L’atto criminale più doloroso è che hanno costretto le persone a lasciare le loro case; purtroppo la mia famiglia è un esempio di quello che è accaduto a centinaia di migliaia di famiglie.
La devastazione causata in questo così breve periodo, che ha ridotto tutto in cenere, non ha paragoni per drammatica celerità con quanto è avvenuto in altri paesi dove la guerra è durat ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!