Ci sono laici, quelli che si sentono i più puri e coerenti laici, che ritengono la religione, tutte le religioni, inevitabilmente nemiche della libertà moderna, della libertà individuale, della libertà di pensiero e della libertà politica. Secondo questo tipo di laicismo, in altre parole, non si può essere liberi senza essere atei. La società e lo Stato moderni, razionali, critici, illuministi, antidogmatici, per essere tali dovrebbero perciò escludere ogni sentimento e cultura che abbiano a che fare con la religione. Secondo questa idea della razionalità critica, si deve essere liberi, ma non liberi di impegnare il proprio pensiero e la propria vita in senso religioso. Si identifica così la religione con il dogmatismo intellettuale e con il fanatismo settario, che invece fioriscono anche nelle masse e negli intellettuali indifferenti alla religione. Questo dualismo assoluto, questa antitesi radicale tra religiosità e libertà individuale di pensiero hanno la loro origine e le loro ragioni nella storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica in Occidente. Ma anche un tale razionalismo illuministico ha un limite: pretende di depurare, bonificare la cultura umana, la riflessione e l’esperienza culturale degli individui da ogni dimensione che sfugga alla ratio della società moderna e dello Stato, delle loro leggi di funzionamento e della loro legalità, che dovrebbe assorbire ed esaurire ogni moralità. Ha scritto Simone Weil in uno dei suoi ultimi frammenti che “quanto viene riconosciuto generalmente all’artista e al pensatore, deve essere riconosciuto a ogni essere umano”. Si tratta cioè della libertà individuale di considerare importanti per la propria vita problemi che con lo Stato e con l’attuale organizzazione della società hanno poco o niente a che fare. La religione fa parte di questi problemi.
Da queste considerazioni dovrebbe derivare che la “fede atea” non può essere prescritta come un requisito necessario e indispensabile all’accettazione di regimi liberal-democratici. Non credo che ci sia da meravigliarsi se Luigi Sturzo, ordinato sacerdote nel 1894, sia stimato come uno dei principali e più originali esponenti del pensiero liberale italiano. La sua originalità fu quella di “ispirarsi” alla dottrina cattolica e ai suoi contenuti implicitamente democratici nel momento in cui, con la fondazione nel 1919 di un partito politico, il Partito Popolare italiano, abbandonava la precedente tradizione astensionistica dei cattolici e li chiamava all’impegno politico in una organizzazione che si dichiarava laica e non confessionale.
Luigi Sturzo non interruppe certo i rapporti con la Chiesa, con le sue strutture organizzative e anche gerarchiche; anzi se ne avvantaggiò. Dopo la prima guerra mondiale, il nuovo papa, Benedetto XV (1918-1922), che tolse il veto all’attività politica ufficiale dei cattolici, aveva definito la guerra appena conclusa una “inutile strage” ed era preoccupato per l’espandersi nei ceti popolari del credo socialista.
In uno dei suoi scritti più importanti, Politica e morale, del 1938, Sturzo chiarisce nella forma più matura il suo pensiero, a partire dalla consapevolezza che è moralmente impossibile per un cattolico non distinguere e giudicare secondo il contenuto di ogni politica; cioè “sapere se lo Stato è liberale o socialista, totalitario di destra o di sinistra”. Gli esiti totalitari del fascismo, del nazismo e del comunismo, erano nemici di ogni morale cristiana, erano antidemocratici e antiliberali e tendevano anche a presentarsi e ad agire come sostituti di ogni religione, cioè come “religioni politiche”. Lo stesso liberalismo aveva la sua immoralità. Scrive Sturzo:

Il liberalismo economico è basato sul principio del lasciar fare, lasciar correre, e sul principio della concorrenza assoluta, che portano inevitabilmente l’oppressione dei deboli. Se un tale sistema è ammesso in un paese, i commercianti e industriali cattolici possono approfittarne? In quali condizioni? E come riparare le ingiustizie inerenti al sistema?
Il caso del comunismo economico, sia esso manifesto o travestito, è oggi all’ordine del giorno. La svalutazione, l’autarchia economica, il socialismo di Stato portano a esperienze di comunismo a lunga portata. Possono i cattolici accettare dei regimi di tale tipo, sforzandosi di approfittare dei loro vantaggi e di installarsi definitivamente in essi? In Germania, in Austria e anche in Italia, ha infierito, per ragioni razziali, la persecuzione contro gli ebrei; gli effetti economici momentanei sono stati vantaggiosi per gli altri: medici, professori, commercianti. Fino a che punto è lecita la partecipazione a tali misure?

L’ispirazione cristiana dell’impegno in politica dei cattolici conteneva un’indubbia radicalità di giudizio nei confronti dell’economia e della politica. Secondo Sturzo, un liberalismo cattolico non potrà perciò che essere democratico: non potrà accettare la logica del liberismo economico, nel quale “il principio della concorrenza assoluta” porta inevitabilmente all’“oppressione dei deboli”. Come potrà il commerciante e il professionista cristiano accettare che il razzismo e l’antisemitismo lo favoriscano ai danni del professionista e del commerciante ebrei?
Nel pensiero liberal-democratico di Sturzo la radice religiosa dell’impegno politico dei cattolici esercita anzitutto una funzione: quella di fondare su nuove basi il rapporto fra morale e politica. L’ovvio sottinteso è che la morale del cattolico politicamente impegnato è e deve essere più ampia, robusta e rigorosa della morale laica nel rifiutare presupposti e conseguenze di un sistema economico in cui mercato e profitto sono tutto.
La critica al totalitarismo che Sturzo formulò nel 1938 non è soltanto fondata sull’opposizione fra regimi dittatoriali e regimi liberaldemocratici, ha implicazioni più vaste: colpisce infatti ogni “politica totale” che tenda a dominare tutti gli ambiti e gli aspetti della vita individuale e sociale:

Il problema morale che lo Stato totalitario (qualunque esso sia) pone, non è stato studiato sufficientemente nella nostra teologia morale. I documenti ecclesiastici (Encicliche, Istruzioni delle Sacre Congregazioni, Lettere episcopali) forniscono già un considerevole materiale. Vi manca ancora l’elaborazione scientifica dei filosofi e la discussione pratica dei casisti per mettere in luce tutta la complessità del fenomeno nella sua portata etico-religiosa.
Il carattere essenziale del totalitarismo è tale che il cittadino è messo nell’impossibilità di restare al di fuori di tale sistema, una volta stabilito, poiché la politica totalitaria penetra tutta la vita: famiglia, cultura, religione, economia, attività esteriore. In Italia gli stessi fanciulli ricevevano la tessera di membro fascista: essi appartenevano al fascismo fino alla morte. Vi furono dei casi in cui moribondi ricevettero l’invito (che era un obbligo per i loro parenti) di vestire la camicia nera come ultimo atto di fede nel fascismo.
La lode e l’adulazione sono parte del sistema: tutti devono applaudire e lodare i dittatori, anche se commettono dei delitti. Chi avrebbe potuto, in Germania, criticare le esecuzioni del 30 giugno 1934? In un bollettino parrocchiale di Vienna, un curato, pochi giorni dopo l’occupazione hitleriana, scriveva queste stupefacenti parole: ‘Nei giorni del cambiamento di regime un grande numero di persone mi ha chiesto come potevo, come pastore di anime, conciliare con l’amore di Cristo il fatto che gli ebrei saranno dappertutto rimpiazzati nei loro impieghi. Ho risposto che l’idea di questa sostituzione è sempre esistita nel piano della Provvidenza divina. Nessuno ha chiamato gli ebrei nei diversi paesi d’Europa. La questione ebraica non era ancora risolta. Il nostro Fuhrer cancelliere del Reich la risolve ora in modo radicale ma anche liberatore per le due parti’.
[...] La domanda si impone: in che misura è possibile a un cattolico collaborare con uno Stato totalitario? La collaborazione implica la libertà di essere in disaccordo e di ritirarsi. È ciò possibile e a che prezzo?
(in AA. VV., Etica, Politica, Economia nel Novecento,
a cura di Michele Magno, Ediesse Edizioni, pp. 129-31)

Il brano, incentrato su un’idea di sistema sociale e politico nel quale non c’è, non deve e non può esserci spazio per il dissenso, la libertà, il farsi da parte e il non collaborare, ha ovviamente molte implicazioni. L’etica della libertà di giudizio e di comportamento viene ancorata saldamente nella fede religiosa. Quest’ultima è infatti di per sé autonoma rispetto alle regole della politica: le precede e le trascende. In questo senso, l’individuo religioso ha in sé, nel più profondo della propria coscienza e individualità, qualcosa che non può scendere a compromesso con uno Stato e una società il cui sistema occupa, dalla nascita alla morte, tutta la vita in ogni suo aspetto.
Il liberalismo cattolico di Sturzo si presenta quindi come un liberalismo nel quale la libertà individuale è rafforzata dal credo religioso, è resa più inflessibile e intransigente perché il suo fondamento non è storico, ma metastorico e fondato su principi morali irrinunciabili: sia quello cristiano della “carità”, sia quello universale della giustizia. Ma carità e giustizia significano democrazia reale, o da realizzare, anche in senso economico. Quando Sturzo parla di sistema, il concetto è sia politico che economico. La totalità della vita è investita e colonizzata sia dalle leggi dello Stato che dalle leggi del mercato:

Quando il governo italiano [fascista] prese a suo carico i debiti verso le banche di certe ditte industriali -per circa sette miliardi- impose per questo fatto un nuovo carico ai contribuenti, a vantaggio di un piccolo gruppo di grandi uomini d’affari. [...] Passando alla nozione di giustizia legale, è superfluo dire che questa si confonde con la virtù di giustizia in quanto adeguamento tra l’azione e la legge. “Legge” qui non significa (come alcuni sembrano credere) la legge positiva scritta ma la legge morale in generale e la legge naturale come regula rationis. È il concetto oggettivo di uguaglianza.
(Ibidem, pp. 132-33)

Nella distinzione, che può essere conflittuale, fra legge positiva scritta e legge morale e razionale, Sturzo prospetta l’impegno politico del cattolico inteso anzitutto come moralità attiva che non accetta la politica quale è intesa da “quelli che, occupandosene, non si sentono più legati dalle leggi morali, con le quali sarebbe assai difficile, per essi, fare della politica come la fa tutto il mondo (o meglio come la fa ‘il mondo’)”.