“Ah, lei ha fatto il volontario a Neve Shalom! Io avevo un amico che viveva là, ma poi purtroppo è morto…” Le parole dell’addetta alla sicurezza dell’Elal divengono di colpo personali, rompendo un cerimoniale rigido che conosciamo bene, fatto di domande martellanti e quasi invadenti. “Tom”, rispondo dicendo il nome del ragazzo morto. “No, io non l’ho conosciuto -proseguo seguendo il filo della sua curiosità- ma conosco bene suo fratello e la sua famiglia”. Sembra una coincidenza cabalistica, questa tragica conoscenza in comune, che ci porta -ancora in aeroporto in Italia- nel cuore del viaggio che avevamo progettato da tempo, nel cuore delle contraddizioni di quel conflitto. Tom, la sua storia tutta israeliana di figlio di pacifisti morto pochi giorni prima della fine della campagna libanese, ucciso per sbaglio da un altro elicottero israeliano, ci prende per mano prima che abbiamo potuto deciderlo. Come a dirci: “State arrivando in Israele”. Ben più lontano di quanto quelle misere quattro ore di volo sembrino dire.

L’atterraggio in Israele alla vigilia di Kippur sembra fatto per chiarire quanto lontani stiamo andando, quasi in un altro mondo. All’inizio della festa, quasi di colpo, tutto si paralizza, niente macchine, niente di niente, tutto sembra coperto da una campana di vetro. La mattina di Yom Kippur ci svegliamo nel mezzo di un silenzio e di un caldo desertici, solo bambini in bicicletta per le strade vuote di macchine. “Una tradizione di ogni Kippur”, ci dicono. Camminiamo per quasi tre ore, circa quattordici chilometri, verso Neve Shalom. L’accoglienza del villaggio è calorosa come ce l’aspettavamo: Michal -formatrice alla scuola per la pace del villaggio- ci offre una squisita torta salata, attorno alla quale inizia la prima interessante conversazione del nostro viaggio. Le chiedo della sua famiglia, di sua figlia Naomi in particolare, che è in età da militare. “Ha deciso di dichiararsi obiettrice politica, cioè di dichiararsi contraria alle scelte politiche sottese alle azioni dell’esercito israeliano”. In sostanza Naomi non è contraria all’uso delle armi e nemmeno a servire il suo paese nell’esercito, non vuole farlo per questo esercito e per questo governo. “Purtroppo -prosegue Michal-, e per ovvi motivi, questa formula non è contemplata dalla legge che regola l’esenzione dal servizio militare, mentre è invece prevista esplicitamente, almeno per le ragazze, l’obiezione di coscienza classica, quella di chi si professa pacifista e rifiuta l’uso della violenza in generale”. Vediamo una madre naturalmente preoccupata per tutto questo, ma ci colpisce e sorprende la lievità, anche l’ironia con cui ne parla mentre immaginiamo le mamme italiane alle prese con un figlio che rischia per scelta il carcere… La conversazione si evolve sul quadro più generale della situazione socio-politica del paese e sul lavoro di Michal come mediatrice alla scuola per la pace. “Pochi giorni fa stavo seguendo un laboratorio cui partecipavano solo israeliani, e una di loro, parlando della società palestinese, l’ha definita ripetutamente una società profondamente militarista e violenta. Chi potrebbe negarlo? Il problema è che troppo spesso -le ho detto- ci dimentichiamo di quanto sia militarista la nostra società, di quanto orientata alla violenza ed all’uso delle armi sia l’educazione che riceviamo”. Michal punta il dito dal terrazzo della sua casa, indicando la base ed il museo militare di Latrun. “Da casa mia vedo il viavai delle macchine nei giorni di festa, famiglie che portano i loro bambini a divertirsi arrampicandosi sui carrarmati, a fare foto o picnic in una base militare”. Le ricordo che, meno di un anno prima, mi era capitato di essere nella base il giorno dedicato ai morti in guerra nei carrarmati, e di ascoltare Sharon parlare della bellezza dei “tanks”, del suo amore per quelle meravigliose macchine. Non posso non dirle che a noi europei, a noi italiani in particolare, certi linguaggi evocano memorie tragiche. Sospira, Michal, e annuisce triste.
Le chiediamo se pensa che l’indurirsi della politica israeliana negli ultimi anni sia frutto di un disegno, di una volontà di fomentare il terrorismo palestinese, per avere una buona ragione per chiudere definitivamente i conti e risolvere con la forza la questione. “Stai dando troppo credito a Sharon e al suo governo.
Non credo abbiano un disegno, non credo siano in grado di concepirne alcuno. Tutto è affidato all’improvvisazione, al caso. Anche dall’ ...[continua]

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