Era prevedibile. Non siamo diventati più buoni, la pandemia non ha cambiato i nostri cuori né ha reso profondo l’animo di chi lo aveva arido. Solo una banale retorica, mostruosa nel suo cinismo, e che si nutre dei più vieti luoghi comuni (e ignora quella letteratura che indaga sul serio sul Bene e sul Male, da Dostoevskij a Camus) poteva avanzare l’ipotesi per cui la sofferenza sarebbe una strada verso la santità e la guarigione del mondo. Nella vita vera, la vittima del sopruso spesso assimila le caratteristiche del carnefice e coltiva con cura il desiderio di atroce vendetta.

Poi, per fortuna, sempre nella vita vera, una volta usciti vivi da situazioni estreme, arriva l’oblio, dettato dalle necessità di rendere l’esistenza sopportabile o forse addirittura buona e bella. Si lasciano quindi da parte i propositi di farla pagare al boia, si fanno figli, si amano i mariti, le mogli, i fidanzati, gli amanti provvisori, si litiga con datori e colleghi di lavoro, chi crede prega e scopre spesso il linguaggio di misericordia, qualcuno si cura da uno psicanalista, qualcun altro scrive un libro, molti si indebitano per comprarsi una casa, altri emigrano perché per superare il trauma occorre non solo il tempo, ma è di aiuto una distanza spaziale. Ma poi, tutto quello che la vittima anzi l’ex vittima fa, è comunque segnato dal trauma.

Ecco, abbiamo detto trauma. Quella che abbiamo vissuto in questi mesi della pandemia è stata una violenza inaudita, un assaggio di una fine del mondo. Ne siamo usciti, tutti quanti, storditi, incerti sul significato dei nostri gesti più comuni, più spontanei. Respirare, all’improvviso, si è rivelato un atto non del tutto innocente e comunque pericoloso. Guardando il film dove le persone si baciavano, abbracciavano, facevano all’amore con qualcuno appena conosciuto, ci sentivamo dei superstiti di un universo precedente, un po’ come avviene quando sullo schermo scorre un film in yiddish. Certo, qui, non c’era un boia in carne e ossa, nessun essere umano in divisa con la pistola con cui sparare in testa alla vittima, né un bastone con cui massacrare e ridurre a poltiglia il corpo del prigioniero. E tuttavia, vittime siamo stati.

Non abbiamo sofferto fame (non qui, nell’Occidente benestante) né freddo, non siamo stati sottoposti a lavori forzati. Eppure, l’umiliazione è stata grande e difficile da comprendere fino in fondo. E non perché abbiamo scoperto di essere vulnerabili di fronte alla natura e privati dell’illusione che lo scudo della tecnica ci garantirebbe la invulnerabilità (questa è solo cattiva filosofia). Siamo stati umiliati perché, appunto, per ragioni sanitarie, per proteggere i nostri corpi, per la nostra sicurezza abbiamo dovuto pensare l’Altro come portatore della morte e non come un essere con cui entrare in contatto, in rapporto, su cui esercitare il nostro bisogno di affetti e la nostra curiosità. Cambiare il marciapiede, come molti facevano al tempo del picco dei contagi, in vista di un’altra persona -non perché la temiamo in quanto ci sembra un violento, un ladro, un malfattore, o è un poliziotto o un soldato da cui scappare per mille ragioni- ma solo perché è appunto un’altra persona, significa aver sospeso il patto implicito che ci fa sentire parte della nostra specie.

Abbiamo vissuto mesi di violenta distopia, in cui abbiamo dovuto congelare le nostre emozioni, calcolare ogni nostro gesto. Ma anche far fronte all’arbitrarietà della morte. L’epidemia colpisce a caso, o almeno così la percepiamo nel nostro intimo. Per fortuna, siamo anche esseri politici e la razionalità politica appunto ha fatto sì che si sia innescata una serie di comportamenti all’insegna della solidarietà e della comunanza di destino: dal volontariato, all’adesione agli appelli a restare a casa e via elencando. Ma resta, aperta, una ferita profonda.

Leggendo i giornali, guardando la tv, seguendo in varie forme la discussione pubblica, si ha l’impressione che si cerchi di parlare “d’altro”, delle cose assolutamente razionali: scenari economici (fra catastrofe e speranza di rilancio), progetti sanitari (preparazione ad altre ondate dell’epidemia), conflitto sociale, questioni geopolitiche, fino alla miseria dei nuovi assetti ministeriali. Resta inevaso il tema del trauma che ci portiamo dentro, delle nostre anime rotte, della nostra consapevolezza di quanto siamo disposti a diventare poco più dei corpi, di quanto sia fragile la forma che nella storia dell’umanità abbiamo dato alle emozioni. È come se dopo questa esperienza fossimo meno umani.
Non ho conclusioni da trarre, se non che siamo in attesa di una grande opera artistica. Ma ci vorrà tempo, il trauma diventa letteratura dopo anni. Intanto, però, qualcuno cominci a parlare dei nostri sentimenti, delle mitologie infrante e dei modi di ricostruirle, senza far finta che niente sia successo.