La grande querelle attuale sulle migrazioni mondiali evoca un dilemma etico-politico, il contrasto, cioè, fra un’etica dell’ospitalità e un’etica della sicurezza. La prima risponde all’imperativo umanitario di salvare vite umane in pericolo; la seconda prescrive di affermare e difendere in primo luogo i diritti "verso noi stessi” rispetto a quelli degli altri. In altri termini  la difficoltà sta nel conciliare il "diritto del migrare” -un diritto universale, cosmopolitico- che riguarda  coloro che, spinti da guerre, persecuzioni e violenze o da condizioni di povertà, fame e disastro ambientale, sono  alla ricerca di condizioni di vita più propizie, con il diritto-dovere degli stati di difendere i propri confini ed erogare ai cittadini il bene pubblico della sicurezza. Tale diritto si applica sia nell’ambito della  sovranità dello stato-nazione sia nella forma più complessa di sovranità sovranazionale, come nel caso dell’Unione europea.
Il dilemma si complica, diventa conflitto politico, assume toni spesso di isteria nazionalista quando, come oggi in Italia e in altri paesi europei, la tutela dei confini si colora e carica del simbolismo identitario del possesso di un territorio da difendere contro lo "straniero invasore”, di un’identità etnica autoctona da preservare contro gli immigrati, percepiti come una minaccia distruttiva per quell’identità. 
Le migrazioni internazionali nascono da un insieme di fattori. Lo squilibrio demografico fra aree del mondo e le disuguaglianze di reddito e ricchezza ne sono le determinanti  principali, come conferma da anni la ricerca empirica in materia. Chi scrive, nell’occuparsi del tema nei primi anni Novanta, in un contesto storico assai diverso dall’attuale, argomentava che fosse illusorio immaginare di impedire l’immigrazione o di sostituire i flussi di persone in uscita con flussi di capitale o di merci verso i paesi d’origine degli immigrati. Un obiettivo ragionevole poteva essere quello di regolare i movimenti migratori agendo sui fattori endogeni di spinta nei paesi d’origine, prescindendo da quelli demografici che agiscono nel lungo periodo. In altri termini, si dovevano orientare la politica economica in loco e gli interventi della cooperazione internazionale a ridurre i dislivelli di reddito e a promuovere l’occupazione, stimolando gli investimenti in produzioni a basso rapporto capitale/lavoro, quali l’agricoltura e la manifattura leggera, nonché le esportazioni aprendo le economie arretrate agli investimenti esteri e ai trasferimenti di tecnologie. Inoltre, era necessaria una maggiore apertura dei mercati dei paesi avanzati agli scambi, particolarmente di prodotti agricoli, con i paesi di origine dei movimenti migratori; in questi vi sarebbe stata di conseguenza maggiore disponibilità di beni importati e un minore impulso a emigrare per sopperire alle carenze dell’offerta interna  (in Roberto Aliboni et al., L’Europa fra est e sud: sicurezza e cooperazione, Iai e Franco Angeli, 1992) .
La stessa distinzione così enfatizzata nel dibattito odierno e che i documenti del Consiglio europeo incorporano appieno fra migranti economici o irregolari e rifugiati e richiedenti asilo è nei fatti  fuorviante. I motivi che spingono a emigrare sono spesso intrecciati e indistinguibili, anche se l’architettura giuridica prevista per l’accoglienza e il successivo trattamento è differente (si vedano per i secondi la Convenzione di Ginevra del 1951 circa lo statuto dei rifugiati e le norme e prassi in materia di diritto d’asilo e di protezione internazionale affermatesi in ambito multilaterale). 
Il linguaggio, le argomentazioni per respingere profughi e/o migranti non sono cambiate negli anni. Quando 80 anni fa  nel luglio 1938, i paesi occidentali si riunirono nella Conferenza di Evian, principalmente per impulso del Presidente Roosevelt,  per affrontare il dramma degli ebrei tedeschi fuggiaschi dal regime nazista e alla ricerca di un "porto” sicuro,  il numero di profughi ammessi sul suolo dell’Europa e delle Americhe fu tragicamente limitato. La decisione così funesta nelle sue conseguenze per lo sterminio degli ebrei d’Europa fu motivata, nella dichiarazione ufficiale, con l’argomento che "...l’emigrazione di un vasto numero di individui di diversa religione, condizione economica, professione è un elemento di disturbo per l’economia di paesi segnati da grave disoccupazione, da problemi non solo di natura economica e sociale, ma anche di ordine pubblico e ...[continua]

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