Una gran sbarazzina... 

di Francesca Caminoli

Non ricordo con precisione quando conobbi Pia Pera. Sicuramente fu a Lucca, sua città natale, dove lei era tornata a vivere dopo molti anni in giro per vari luoghi del mondo, nella cui campagna io mi ero ritirata da tempo. Ricordo però molto bene una cosa che mi colpì subito: il suo modo di ridere. Una risata duplice la sua, a volte contagiosa, a volte invece, almeno per me, esagerata, quasi sguaiata, fuori luogo. Anche il mio rapporto con lei non era lineare: mi piaceva la Pia delle chiacchiere a due nel suo giardino o al tavolo della mia cucina, ma spesso mi irritava la Pia delle serate più sociali, quando avevo la sensazione che mi ignorasse completamente per dedicarsi con un brio che a me sembrava eccessivo a persone più "qualificate”: lo scrittore famoso, la pittrice di moda, l’editore di grido.
Più che amiche, eravamo conoscenti. Ma poi successe un fatto che cambiò tutto. L’ho già raccontato, ma lo voglio raccontare ancora, perché fu allora che capii chi fosse Pia veramente. Il 12 settembre del 2004 mio figlio Guido si suicidò gettandosi dai bastioni di Otranto. Il 13 notte ritornai in macchina da laggiù con i miei fratelli. Uno di loro voleva fermarsi a dormire da me. Gli dissi che preferivo rimanere sola. Il mattino del 14 mi svegliai con un grande desiderio di caffè e nessuna voglia di farmelo. Stavo andando in cucina quando suonò il citofono. Era Pia. "Ho pensato che tu avessi voglia di un caffè”, mi disse. E me lo preparò. Poi andammo insieme all’obitorio, dove Guido era stato portato. Quel giorno Pia diventò mia sorella. La sua risata non mi dava più nessun fastidio, mi riempiva il cuore. E come due sorelle abbiamo potuto permetterci di essere vicendevolmente quello che eravamo. Libere, senza condizionamenti esterni, senza retropensieri.
"Ma lo sai che sei molto egocentrica?”, mi disse un giorno, non ricordo che cosa le stessi raccontando. Ricordo però che mi obbligò a vedermi in modo diverso. E a trasformare questa sua frase in un tormentone che spesso ci faceva ridere. Appena le raccontavo qualcosa di me e vedevo il suo sguardo le dicevo: "Oddio, come sono egocentrica”, e lei rideva e io ridevo e la vita si faceva più lieve all’ombra degli ulivi del suo giardino.
Pia a volte se ne usciva con frasi assolute, a effetto. Una mi colpì particolarmente. "Che noia i bambini”. Che noia i bambini, ma che dici? Una volta andammo al mare a Vecchiano con Alina, una bambina bielorussa che passava un mese d’estate con me. A un certo punto Pia la prese per mano e andarono insieme a fare il bagno. Io le guardavo dalla spiaggia. Saltavano nell’acqua, ridevano, si spruzzavano, giocavano con le onde. Alina era felice, Pia era felice. Ogni anno, quando Alina arrivava, passando da bambina ad adolescente a ragazza, Pia la voleva incontrare, le regalava i suoi libri in russo, la portava al mare. Anche l’anno scorso, poco prima della sua morte, quando la Sla la obbligava ormai a tenere sempre il respiratore, volle che Alina andasse a trovarla. I suoi occhi si riempirono di gioia e si misero a chiacchierare, nei pochi minuti in cui si poteva togliere la maschera, e la forza di Pia si trasmise ad Alina, che aveva appena perso suo papà. Quando ce ne andammo, "Grazie Pia,” le disse Alina e poi qualcosa in russo e lo sguardo di Pia si fece grande e divenne lo sguardo della madre che non aveva voluto o potuto essere.
Dopo che le fu diagnosticata la malattia, chiesi a Pia se voleva che le prestassi Cosa importa se non posso correre, scritto dalla mia compagna di liceo Marinella Raimondi, malata anche lei di Sla, completamente paralizzata e, allora, da quindici anni con il respiratore. "No grazie,” mi rispose. Qualche tempo dopo, con la timidezza che la caratterizzava e che sapeva ben nascondere dietro la sua sfrontatezza: "Mi porti il libro della tua amica?”, mi disse. Lo lesse, divennero amiche di mail, che Marinella poteva scrivere "premendo qualcosa tra le ginocchia, unico flebile movimento rimastole”, come scrive Pia. E scrive ancora: "…ho pensato ai nipotini di Marinella, che accettano le cose così come sono, trovano il modo di stare con la nonna, le prendono la mano paralizzata, se la passano sul viso per permetterle di accarezzarla”. Ah, i bambini Pia, tu li amavi, non erano una noia, come ti rallegravi e preparavi quando sapevi che sarebbero arrivati dallo Sri Lanka i figli del tuo buon badante Giulio.  Certo, poi non potevi non sbuffare un po’, ma il modo in cui li guardavi ti tradiva.
In realtà eri una gran sbarazzina chiusa in un coltissimo e disciplinato bozzolo che ti era stato tessuto intorno nella tua infanzia da "ingombranti” e peraltro amati genitori. "Sarebbero dunque pensieri oziosi, quelli che vengono in giardino?”, scrivi. "Già questo è un giudizio, già esprimendomi così accetto il verdetto di un tribunale estraneo. Il famoso tribunale della ragione? Quanto è ingombrante quel tribunale, com’è difficile sottrarsi alla sua giurisdizione”.
Così salti per aria il giorno che ti accompagno in macchina a Cecina per incontrare un medico e ti sparo a tutto volume Peter Tosh. "Abbassa, cos’è questa roba?”, "Reggae”. Abbasso. Qualche chilometro in silenzio tra di noi. Poi: "Potresti alzare un po’,” mi chiedi ridacchiando. Le racconto che la musica reggae riusciva a illuminare un po’ la mia vita dopo la morte di mio figlio, piaceva molto anche a lui. Mi racconta che una dottoressa cinese le ha consigliato di ascoltare gli Abba perché allegri, lei che dodicenne aveva chiesto al padre in libreria di comprarle dei gialli e lui invece le aveva preso Edgar Allan Poe "che mi ero costretta a leggere -scrive- per essere sua degna figlia”. E scrive anche, ironica Pia persino nei momenti peggiori della malattia, che l’aveva divertita pensare di aggiungere come sottotitolo al suo ultimo, meraviglioso, struggente libro Al giardino ancora non l’ho detto, da cui ho tratto tutti i virgolettati di questo testo, "come gli Abba ti possono salvare la vita”. "C’è qualcosa di deliziosamente mistico nell’idea di una canzone degli Abba ­-Dancing queen?- che, come il filo di Arianna, tiri fuori dal regno del Minotauro. Cosa ho detto? C’è poco da fare, qualsiasi mio pensiero finisce col confezionarsi in forma di riflessione di ex allieva di liceo classico. Proprio così, sono incorreggibile”.
Non è vero, Pia, abbiamo fatto tutto il viaggio fino a quel buonissimo ristorante di Bibbona dove abbandonasti le ferree regole dietetiche di uno dei tanti sciamani o pseudo tali a cui di volta in volta ti affidavi per poi abbandonarli tutti e ti strafogasti di delizie della cucina di mare come da tempo non ti avevo visto fare, e il ritorno a Lucca, accompagnate dai ritmi assordanti che infilavo nel cd. Arrivate a casa tua, quasi vergognandoti un po’: "Sai che continuo ad ascoltare Motocicletta 10hp di Battisti,” mi dicesti.
Altro che chiusa in un bozzolo Pia, l’avevi disfatto filo per filo da tempo, da quando la tua testa e le tue mani si erano abbassate verso la terra, verso i fiori, le verdure dell’orto, il tuo amato cagnolino Macchia. Ah, l’avessi capito prima. E l’avessi capito con il ne ponimaju, "non capisco”, della tua amica russa Vera. Un ne ponimaju che è "scelta -scrivi- di un altro capire, sete di un non sapere che è mantenere il cuore vuoto, sgombro dalle cianfrusaglie, colmo di solo amore”.
Oggi, mentre scrivo, in questa giornata di aprile che sembra ritornato l’inverno, avvolta nel cardigan fatto con la lana delle pecore di Longomai che mi regalasti (vedi intervista a Pia Pera, "Una città” n. 88 del 2000) ti racconto che a breve, dopo quattordici anni tra le mura di Lucca, tornerò a vivere in campagna. Mi sa che in questa scelta c’è un po’ anche il tuo zampino.

Un metro quadro di terra  

di Edoardo Albinati

È abbastanza raro che uno scrittore raggiunga la sua maturità personale e quella, diciamo così, professionale nello stesso momento della vita. Vivere e scrivere, di solito, non vanno molto d’accordo e il problema è che non viaggiano affatto in parallelo. "Ripeness is all” è certamente un verso meraviglioso, ma non sono così sicuro che dica la verità, o almeno una verità valida per tutti. La maturità umana può anche segnare lo spegnersi dello spirito creativo, l’assestamento al centro della vita dovuto alla saggia rinuncia a frequentarne gli estremi, o al venir meno delle forze per farlo. Ci sono infatti grandi scrittori rimasti per sempre immaturi, e questa specie di eterna adolescenza costituisce lo splendore delle loro opere o addirittura, come nel caso di Witold Gombrowicz, un vero e proprio programma, un ideale ricercato, una poetica. "Adulto? mai!”, scriveva Pasolini nel famoso attacco di una sua poesia.

Adulto? Mai – mai, come l’esistenza
che non matura – resta sempre acerba…

Pia Pera, quando la conobbi, era una giovane donna sfrontata e capricciosa. Eccessiva nel suo modo di pensare, di parlare, di ridere e anche di intrecciare un’amicizia, qual è stata anche la nostra per lunghi anni. Con ogni aspetto anche minore della vita sembrava voler ingaggiare un duello, una battaglia, dagli accenti ora drammatici ora consapevolmente comici, vale a dire recitati, esagerati, esasperati, e dunque struggenti, come una specie di Cyrano de Bergerac. Non avrei proprio detto che fra le sue qualità vi fosse quella della misura, sempre che sia una qualità e non un limite. Spingeva così spesso e così a lungo sul pedale dell’entusiasmo, da prendere delle cantonate colossali, soprattutto nella delicata materia del capire chi sono gli altri davvero, e cosa vogliono, e soprattutto cosa vogliono da te. Tra chi l’ha conosciuta di persona, è rimasta proverbiale la sua risata esplosiva, così incontrollabile e folle che poteva esprimere una gamma intera di emozioni molto diverse tra loro: dall’ilarità piena, pura, infantile, al piacere surreale dettato dall’insensatezza della vita, all’intelligenza bruciante e amara delle cose. Poteva mascherare la paura di mostrarsi sofferente e indifesa, oppure a lanciare una sfida intellettuale. Talvolta quella sua risata suonava persino minacciosa, e fastidiosa. Come ha scritto di lei Stefano Velotti, la caratteristica che più colpiva della giovane Pia era la sua "impertinenza”, parola in cui si riassumono due significati contigui: l’essere fuori luogo, inopportuni, appunto, non pertinenti, illogici, incongrui – ma appunto per questo essere liberi, coraggiosi, anticonformisti, sbarazzini, pungenti, maliziosi eppure ingenui, come può essere un ragazzino o una ragazzina, e quasi mai un adulto. Ebbene, i gusti di Pia, i suoi giudizi, le sue iniziative, i suoi gesti erano spesso impertinenti.   
Ora, potete immaginare come sia singolare e persino strano che questa battagliera figura dell’irrequietezza e della stravaganza, che era la giovane Pera nella prima metà della sua vita, si sia tramutata nella seconda parte nell’immagine stessa della saggezza e della quiete, o quantomeno della ricerca di esse, della via che può, forse, lentamente, condurvi. E questo non solo negli ultimissimi anni, immersi nel crepuscolo di una malattia, la Sla, tremenda eppure da lei vissuta con un ironico savoir-faire che forse nemmeno le martiri e le sante possedevano, ma ormai da molto tempo, cioè dalla grande scoperta a cui si deve questo che appare come uno spettacolare rovesciamento esistenziale: la scoperta dell’orto e del giardino.
Dico che questo sembra un rovesciamento perché, in realtà, nel momento in cui si avvia per il suo cammino iniziatico (il punto decisivo di svolta è la pubblicazione del libro, bellissimo, L’orto di un perdigiorno, nel 2003, una rivelazione per molti che si interessavano dell’argomento, ma ancora di più per me che mai avrei immaginato la mia nevrotica, cosmopolita e imbranata amica alle prese con la zappa, il concime, le piante, le radici, la lentezza e la pazienza connaturate a quell’esercizio…), Pia non si lascia affatto alle spalle il suo carattere balzano e curioso (quello della volpe, secondo la famosa definizione coniata da Isaiah Berlin) ma ne incanala le energie fino ad allora disperse un po’ ovunque in una filosofia pragmatica, fisica, terrestre, praticabile ovunque e da chiunque abbia un metro quadro di terra da lavorare, o, piuttosto, da contemplare. È come se lei dicesse: se a questa visione e a questa pratica sono approdata io, per come sono fatta, per quello che ero fino adesso, per la vita che ho condotto sin qui, vuol dire che a tutti la medesima possibilità è concessa, la medesima strada è aperta. La parabola non poteva essere più chiara.
Ed è appunto qui che la maturità della persona e della sua scrittura si incrociano e si appaiano, per non separarsi più, con risultati sempre elevati e sorprendenti, fino all’ultimo libro di Pia, il diario del congedo, il meravigliosamente equilibrato e commovente Al giardino ancora non l’ho detto, il cui titolo è tratto da una poesia di Emily Dickinson ("I haven’t told my garden yet”). Se fino alla scoperta del giardino il talento letterario di Pia Pera si era esercitato in modo spavaldo e senza limiti (cito come unici esempi il lavoro sull’Onegin di Puskin, di gran lunga la più disinvolta e leggibile traduzione del romanzo in versi in lingua italiana, e il paradossale rovesciamento di Lolita di Nabokov, raccontato dal punto di vista di lei, Il diario di Lo), ora quel modo estroso di spaziare e sperimentare nervosamente in ogni direzione trova il suo esatto rovescio, ma anche il suo compimento, nella scrittura di libri che hanno finalmente trovato un mondo esemplare, un luogo assoluto e al tempo stesso in perenne mutazione, dove le avventure sono incessanti anche se quasi impercettibili, e tutto può essere raccontato con il medesimo tono: delicato, ampio, avvolgente, al tempo stesso partecipe e distaccato, magistrale. L’ironia giovanile non è stata deposta ma è salita di livello, trasformandosi in una lezione permanente sulla precarietà delle cose e delle persone. Si tratta del mondo incantevole ma anche sottilmente crudele del giardino: cioè il luogo della continua metamorfosi. Modellata secondo le forme organiche della crescita e della decadenza, riprodotte fedelmente nell’andamento della prosa che le descrive, la scrittura di Pia assume la stessa identica cadenza della sua vita, senza più ricorrere allo scarto brusco dell’invenzione narrativa, della finzione che vorrebbe sorprendere a ogni costo. La forma di questi libri è infatti perlopiù diaristica: segue senza discostarsene l’andamento sinuoso e svagato del tempo, delle stagioni, della pigrizia e degli improvvisi entusiasmi e fallimenti e tentativi e delusioni, nell’ordine sparso in cui si presentano realmente nella vita, dove le giornate si susseguono belle o brutte o semplicemente così come sono, risparmiate da ogni giudizio, irripetibili.
È interessante come la forma sapienziale a cui pagina dopo pagina si avvicina questa curiosa forma di saggistica, che si spinge ben oltre l’argomento botanico di cui sembra quasi esclusivamente occuparsi, si esprima non nel giudizio bensì nella sua progressiva sospensione. Man mano che si avanza nella trattazione, le cose si fanno più incerte, mostrate nel loro rovescio, le convinzioni appaiono in tutta la loro labilità, il mondo intero diventa cangiante e flessibile, aperto a ogni combinazione. Le possibilità, letteralmente, fioriscono moltiplicate intorno al ramo della realtà, per poi appassire.
Nella persona matura che Pia Pera è diventata attraversando le stagioni del suo giardino c’è in verità ancora molto della capricciosa e curiosa bambina di una volta, della Alice in Wonderland che ficcava il naso dappertutto. Ritroviamo questo spirito, intatto, in molte delle pagine de Al giardino ancora non l’ho detto: anche mentre racconta della sua malattia, che poco alla volta la immobilizzerà, con un sorriso che serve a disinnescare la paura, e a evitare ogni lamento, Pia Pera non rinuncia mai a mostrare il lato comico, lievemente assurdo, dolcemente ridicolo del suo stesso affannarsi per aver salva la vita: provando nuove cure, sperimentando metodi strampalati di curatori e sciamani di ogni tipo. La sua saggezza, infatti, non è nell’aver rinunciato alle illusioni, ma nel raccontarne così serenamente il disincanto dopo averlo vissuto comunque con dolore. È come se il viso di questa donna, e i suoi occhi luminosi, fossero capaci di trasmettere al tempo stesso una grande e composta tristezza, e una indomabile allegria.