Editoriali

Il primo editoriale (1991) 

Una Città n° 1 / 1991 Marzo
Ypres, Coventry, Dresda, Hiroshima. Nomi di città che hanno segnato il secolo e di cui, mai, sul suo finire, avremmo immaginato di dover riascoltare l’eco. Insieme a quello di nomi tedeschi di gas. 
Abbiamo intravisto qualche volto. Quello attonito e fisso di un bambino irakeno coricato sul fianco non ustionato e quello di un bimbo ebreo nascosto dalla maschera antigas. E poi volti di padri irakeni scossi da un pianto infantile. E abbiamo intravisto di sfuggita il volto di un’anziana signora israeliana, invalida, portata a braccio giù per le scale. Di nuovo a dover scendere delle scale in tutta fretta. E sotto una tenda in un deserto guardando la finale del superbowl, la risata di un ragazzo nero americano che domani dovrà essere molto crudele e forse non tornerà a casa. 
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Perché parliamo tanto di ebrei (1992) 

Una Città n° 10 / 1992 Febbraio
Perché parliamo tanto di ebrei ce lo chiedono in molti. Ma come sospettando che tanta insistenza da parte nostra celi qualcosa di tenebroso. Quasi fossimo lontani discendenti di quei marrani spagnoli che, obbligati a convertirsi, conti­nuavano poi in segreto a celebrare il sabato. Qualcuno ha adombrato che questo "avvicinarsi” a Israele via Auschwitz fosse un eccesso dell’ormai imperante zelo da "sinistra in crisi”. Un altro ha tagliato corto: "gli ebrei ora vanno”. 
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L'editoriale quando due amici morirono: 
Alexander Langer e Grazia Cherchi (1995) 

Una Città n° 43 / 1995 settembre
Quando ci siamo incontrati, a luglio, Grazia Cherchi era affranta per la morte di Alex Langer. Non solo per Alex, non solo perché, come ha scritto, lo considerava insostituibile, ma anche perché in quella morte vedeva un segnale terribile per il nostro futuro e per il destino di una generazione. Cosa, quest’ultima, su cui noi, assolutamente, non eravamo, non volevamo essere d’accordo. Poi, però, parlando del giornale fu lei a voler infondere ottimismo, consigliandoci di farlo meno cupo, di parlare anche delle cose positive, di chi riesce a fare qualcosa di buono. E rise quando le chiedemmo se ce lo avrebbe procurato lei un elenco. Ora sappiamo che da tempo stava combattendo, da par suo, la battaglia che non si vince e che a luglio i suoi giorni erano già contati. Malgrado tutto, ora accettiamo, vogliamo accettare, quel consiglio.
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Honoris Causa (1998) 

Una Città n° 72 / 1998 Novembre
I nostri abbonati sanno che non usiamo fare polemiche ad personam. Questa sarà l’eccezione che conferma una regola. 
Mentre pubblichiamo qui sopra due appelli di solidarietà con la stampa libera algerina, non possiamo non parlare di un altro appello, che sta circolando in ambiente accademico, rivolto al rettore dell’università cattolica di Lovanio. Con toni accorati gli si chiede di recedere dalla decisione, già presa, di attribuire una laurea honoris causa a Khalida Messaoudi perché «è lontana dal rappresentare la lotta multiforme delle donne algerine»,perché «l’attribuzione di questo titolo non renderebbe un servizio né alla causa delle donne algerine, né a quella della pace in Algeria, né alla stessa persona in questione che voi rischiate di votare a un isolamento definitivo nel suo paese, rendendo impossibile la sua partecipazione a ogni dialogo ‘senza veti’ su scala nazionale per quanto difficile e tuttavia così necessario» (Capiamo bene quel ‘senza veti’? Mentre Khalida e i democratici intransigenti sarebbero a un passo dall’essere esclusi dal negoziato che gli appellanti continuano ad auspicare, il Gia no?).
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L'editoriale di don Sergio Sala sull'Algeria (1997) 

Una Città n° 59 / 1997 Maggio
E’ scritto nel Talmud che per ogni generazione esistono trentasei giusti nascosti e che grazie ai loro meriti il mondo continua a sussistere; il racconto, saggio e suggestivo, è stato accolto dalla Kabbalàh e attraverso i chassidim è giunto fino al nostro tempo, ripreso da Martin Buber e poi da Abrahm Heschel. Un mito? I nostri rapporti umani sono così minacciati e contraddetti, che finiscono sempre per subire anch’essi, come le cose, la fatale legge dell’entropia. Si precipita nella delusione, nella durezza, nell’indifferenza, nella disperazione. A meno che non ritornino i giusti che riavviano la storia con un amore creativo, più forte dell’odio e più forte del pregiudizio innescato dall’odio, dalla reazione ad esso. Spesso pagando con la vita. Qualcosa di simile dev’essere avvenuto con i sette monaci trappisti, cistercensi di stretta osservanza, sequestrati e poi uccisi da un commando islamista in Algeria, a Médéa, il 21 maggio ’96. Conoscerli e imparare da essi è forse il modo più giusto per dare senso al nostro tempo.
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L'editoriale, assai controverso e criticato da tanti amici, 
più per il tono che per il contenuto, sul Kosovo (1999)

Una Città n° 77 / 1999 maggio 
Questa redazione è interventista (non dalla prima ora, purtroppo: quando nel lontano ’91, dopo averla martirizzata coi bombardamenti, le truppe di Milosevic facevano entrare a Vukovar le squadracce fasciste per il "lavoro a mano”, qui ci si attardava a discettare di "Germania e Vaticano”). Siamo favorevoli all’intervento perché di fronte a massacri di inermi chi può deve intervenire, ma ancor più lo si deve quando il massacro è compiuto per motivi etnici e razziali, quando il bambino, la donna, il vecchio, per il solo motivo di essere nati in un certo modo, diventano veri e propri nemici da sterminare o da terrorizzare al fine di allontanarli per sempre dalla loro terra (ed è in malafede chi non vede che questo ha a che fare con Auschwitz).
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Un nuovo internazionalismo (2004) 

Una Città n° 119 / 2004 Marzo
C’è una cosa particolarmente nauseante nella brutalità americana. Non solo perché essa si accompagna a un discorso tanto ambiguo su democrazia, libertà e pace, ma perché è così scoperta, così grossolana, in un certo senso così fine a se stessa, uno sport, un affare tecnico. Potere Potere Potere. Ma non sospettano che il potere può essere speso molto più rapidamente dei soldi? Con questa citazione di Nicola Chiaromonte, tratta da un articolo contro la guerra del Vietnam, Gregory Sumner a proposito dell’avventura "preventiva” irachena, nel numero del marzo 2003 di Una città, metteva in guardia dal pericolo di un "pantano vietnamita”.
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