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to un luogo dove si può venire anche quando
non si ha bisogno. Per me è sempre molto
commovente quando qualcuno ci viene tro-
vare pur non avendo più bisogno, oltre alla
strumentalità del rapporto; è un’attestazio-
ne importante e una grande gioia.
I medici oncologi, così come gli specia-
listi che hanno a che fare con malat-
tie importanti, sono quotidianamente
a contatto con storie di sofferenza e
talvolta con esiti infausti. Diceva che
queste iniziative aumentano il senso
di condivisione. Sappiamo della soffe-
renza del malato, ma la sofferenza del
medico?
Il contatto con la sofferenza, con la malat-
tia, fa parte della scelta di fare il medico.
Chi sceglie questa strada deve sapere che la
sua vita sarà coinvolta in maniera totaliz-
zante da questa esperienza. Chi fa il medico
ospedaliero in determinati reparti è meglio
sappia da prima che non avrà una vita so-
ciale normale né una vita familiare norma-
le. Dovrà essere disposto a queste rinunce.
Se lavora in un’unità di terapia intensiva,
coronarica, o in un’ematologia con bambini
con la leucemia, non potrà pensare che tutto
questo non abbia un impatto fondamentale
sulla sua vita extra professionale, saremmo
degli schizofrenici, dei dissociati. A volte a
noi medici sembra che il mondo sia tutto un
grande ospedale, c’è anche un’alterazione
della percezione.
In questo però non c’è sofferenza perché
prevale il senso di dedizione, di missione se
vuole. Se in tutto questo provi anche una
profonda gioia, allora funziona. Anche per-
ché il ritorno è clamoroso. L’importante è
che tutto questo non diventi una condivisio-
ne che ti mette alla pari con l’ammalato.
Tu devi sempre rimanere altro. A un corso
per infermiere ho usato questa espressione:
“Non permettete all’ammalato di entrare
nel vostro letto, perché altrimenti si im-
padronirà di voi e non sarete più credibili.
Siate voi a entrare nel letto dell’ammalato”.
È fondamentale mantenere la propria alte-
rità, non identificarsi, anche proprio per il
malato.
Il momento dell’identificazione, che può
sembrare il più alto nella nostra professio-
ne, è quello in cui annulli il tuo ruolo perché
a quel punto il malato ha bisogno di qualcun
altro in grado di reggere il timone. Al di là
di tutti i discorsi che facciamo, l’ammalato
infatti spera anche di avere un buon timo-
niere, di andare nella giusta direzione.
Ovviamente, quando qualcosa va male c’è
dolore.
Quando un paziente mi dice di aver avuto
degli episodi di vomito, io per prima cosa
dico: “Mi dispiace”, e mi dispiace sincera-
mente. Però l’episodio negativo non deve
assumere il sapore della sconfitta. Non mi
piace l’immaginario bellico che ruota attor-
no al tumore, la “lotta”, la “vittoria”. Que-
sta visione militaresca a volte diventa una
maniera di non condividere. Quante volte si
vede l’ammalato arreso e il medico combat-
tivo. Non va bene. Noi non lottiamo contro le
malattie, noi lottiamo per noi. Il cancro non
è qualcosa di alieno, è una parte di noi.
Una volta, in caso di prognosi infausta,
i medici tendevano a parlarne con i fa-
miliari anziché con il malato. Oggi le
cose sono cambiate, ma molti medici,
nell’incapacità di gestire una comuni-
cazione così delicata, finiscono per es-
sere brutali o si rifugiano in formule
asettiche e poco chiare.
Diceva nel 1982 lo scrittore Norman Cou-
sins: “Essere capaci di diagnosticare con
esattezza è una buona dimostrazione di
competenza medica. Essere capaci di dire al
malato ciò che egli deve sapere è una buo-
na prova di arte medica”. La medicina resta
sempre una pratica dove l’arte individuale
si sovrappone alle conoscenze della scienza.
La medicina, pertanto, non è una scienza,
ma una pratica che coniuga appunto arte e
scienza.
Io non credo si possa insegnare la comuni-
cazione, anche se la si può perfezionare, af-
finare. Dopodiché contano anche le qualità
individuali, perché le insidie sono forti. Da
un lato c’è l’inadeguatezza umana di ognu-
no di noi, che quando si trova a comunicare
cose così grandi come quelle che attengono
alla vita e alla morte dovrebbe aver risolto
i suoi problemi con la vita e con la morte.
Dall’altro c’è l’aspetto più deteriore che è la
tendenza alla deresponsabilizzazione, all’e-
sercizio della medicina cosiddetta difensiva,
in cui l’informazione diventa lo strumento
per tutelarsi: “Tu sai quello che hai, io te
l’ho detto”.
Con l’aumentare della conflittualità che c’è
un po’ in tutti i settori, sta diventando un
approccio diffuso: ti dico come stanno le cose
e buonanotte. In quel momento non c’è più
alleanza, c’è contrapposizione. È un po’ come
quando si fa scegliere il malato mettendogli
davanti due foglietti: “Può fare l’intervento
chirurgico o una radioterapia, qui ci sono
tutti gli elementi per scegliere. Quando ha
deciso me lo dica”.
Questo succede sempre di più. E l’amma-
lato rimane lì: “Ma come, devo scegliere io?
Da solo?”. Li lasciamo sempre più soli que-
sti ammalati. Però un po’ se la sono voluta
perché si parla sempre di etica e deontologia
medica ma... e l’etica del paziente? I pazien-
ti sono sempre leali con i loro curanti? Ci
sono pazienti che sono anche sleali. Io vedo
sempre l’aspetto reciproco: è vero, i medici
quante volte si vede
l’ammalato arreso e il medico
combattivo. Non va bene
I Musicisti “colti”, interpreti della “grande
Musica” di Gian Andrea Lodovici, con questa
iniziativa sono entrati a pieno titolo nell’uni-
verso della malattia e della medicina, il pen-
siero nobile e alto di Alex Langer e dei suoi
epigoni oggi trova nuove corrispondenze cul-
turali con DdM e con la medicina moderna.
Le parole nel segno delle quali si è sviluppata
la profonda intesa tra Musicisti e Medici sono
infatti proprio “cultura” e “armonia”.
Armonia non è solo un concetto musicale, ba-
sti pensare all’uso che se ne fa nella parlata
comune e alla sua derivazione etimologica.
Armonia può significare “riconciliazione degli
opposti, concerto di elementi diversi o anche
discordanti, in ogni ambito, anche quello del
corpo umano”. Per questo, oltre a “cultura”,
anche “armonia” può forse essere uno degli
elementi di collegamento non solo tra la medi-
cina e DdM, ma anche tra queste e il pensiero
al quale si ispira la Fondazione Langer.
Anche attraverso esperienze come DdM, la
medicina del futuro, vorrei dire del presente,
persegue infatti l’armonizzazione tra Uomo e
ambiente, tra curato e curante in una dinami-
ca di continui scambi di ruolo oltre la cristal-
lizzazione dell’iconografia consueta di camici
e pigiami, ma soprattutto l'armonizzazione
tra l’Uomo e la malattia, in questo senso con-
figurandosi come una pratica che si preoccupa
e occupa delle persone, sul confine indefinito
tra malattia e salute nel senso più ampio e
integrale di questi termini. L’esercizio della
medicina, in questa nuova relazione di cura,
si compie nel recupero di quella dimensione
umana e culturale che negli ultimi decenni
sembrava talvolta aver smarrito o relegato in
secondo piano. Il ritrovato concetto di cura,
richiamando il significato originario della pa-
rola (mi riferisco al mito), comprende in sé le
pratiche terapeutiche ma non si esaurisce in
esse. La cura così intesa, la cura globale della
persona, è un concetto trasversale, coinvolge
l’intera società umana, ed è evidente che la
medicina non può averne il monopolio, ma è
altrettanto chiaro che la pratica medica non
può più limitarsi all’esercizio della terapia.
La nuova medicina, quella che apre le porte
della cura, pur mantenendo la prerogativa
esclusiva dell’esercizio della terapia medica,
si propone quale protagonista nel gestire il
passaggio dalla tecnica della cura alla cultu-
ra della cura, per dirla con Dietrich von En-
gelhardt. Infatti l’acquisizione della dimen-
sione culturale della sofferenza e della cura
è indispensabile per riuscire a intercettare i
bisogni emergenti degli ammalati, in partico-
lare quelli oncologici, tenendo conto del fatto
che solo una parte di loro può oggi guarire, che
la persona guarita dal cancro esprime ancora
bisogni importanti per tutto il resto della pro-
pria vita e che coloro che non guariscono pos-
sono oggi vivere a lungo, presentando certa-
mente importanti problematiche cliniche, ma
anche bisogni diversi, i quali devono pur’essi
trovare modo di esprimersi e di essere oggetto
di cura. Non si può ignorare tutto questo nel
contesto attuale, nel quale la transizione epi-
demiologica dalla prevalenza delle malattie
acute a favore di quelle croniche, degenerati-
ve, invalidanti, persistenti, è ormai compiu-
ta. Una medicina che sappia rinnovarsi deve
interrogarsi sui modi possibili di intercettare
questo cambiamento, non depotenziando il
suo arsenale scientifico-tecnologico, ma dive-
nendo una pratica più critica e consapevole,
partecipativa e aperta, inserita nel dibattito
culturale e non chiusa nella torre d’avorio
della scienza. Percorso difficile, ma forse indi-
spensabile per riuscire a ricollegare un senso
a quella sofferenza che non può essere elimi-
nata, ma anche a riconoscere al dolore le sue
dimensioni non biologiche.
Questo è il significato del passaggio dalla tec-
nica alla cultura della cura.
Claudio Graiff
(
Bolzano, 5 luglio 2013,
cerimonia di consegna del Premio)
La cultura della cura