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theid che si viene a creare tra i malati e i
sani si arriva a quella che ho chiamato la
“condizione professionale” dell’ammalato.
Un signore, che dopo aver fatto il giro delle
sette chiese era venuto anche da me in cerca
di un’improbabile risposta, alla domanda su
quale fosse il suo mestiere mi ha risposto:
“Io facevo...”. Al che ho iniziato a chiedere:
“Perché facevo? Non ce la fa più? Le manca
la forza?”. “No, no, ce la farei”. “Ah, è perché
ora le sue priorità sono altre, non le interes-
sa più...”. “Scherza? Il mio lavoro me lo so-
gno di notte!”. “E allora?”. “Ma dottore, per
forza non lo faccio...”. Ecco, “per forza” non
lavorava più, doveva fare l’ammalato!
Perché ormai si è creata questa spaccatu-
ra tra il sano e il malato che ci impedisce
di vivere come prima, anche se potremmo.
Questo concetto della malattia, che è pret-
tamente culturale, ci cambia la vita, ci cam-
bia il concetto dello spazio, del tempo, ci fa
coniugare i verbi al passato. Ecco, l’irruzio-
ne dei musicisti nella vita di ammalati che
dal mondo sono stati buttati fuori (o si sono
autoesclusi) è qualcosa di fondamentale per
rompere questo isolamento. Per questo noi
la definiamo una rivoluzione, imbarazzante
nella sua semplicità, perché vuole riportare
al concetto che ognuno di noi è a un tempo
sano e ammalato. Molti malati di oggi sa-
ranno i sani di domani e sicuramente quasi
tutti i sani di oggi saranno i malati di doma-
ni. Insomma, siamo tutti sani e malati. La
condizione della malattia, nel momento in
cui diventa dominante e totalizzante al pun-
to da obbligarti a rinunciare a tutto quello
che eri, fa sì che tu non sia più il signor pin-
co pallino che oggi ha un problema, bensì tu
diventi il tuo problema.
Allora, per gli ammalati, al di là dell’intensi-
tà emotiva con cui ognuno di loro può vivere
il momento del concerto, credo che questo
sia un aspetto che conta. Non è la solidarie-
tà o la beneficenza. È il musicista che ar-
riva e alla fine ringrazia di aver condiviso
dei momenti con persone che attraverso la
loro esperienza hanno comunque acquisito
un sapere che lui può giusto intravedere.
Ma soprattutto è una cosa che si fa assieme,
in cui anche l’ammalato e i familiari svolgo-
no una parte attiva. Il progetto prevede che
alla fine ci sia un buffet in cui il malato fa
qualcosa di pratico, ma soprattutto di sim-
bolico perché il malato non è al centro.
Nell’idea di porre il malato al centro, a
suo avviso, si sono commessi anche de-
gli errori...
Sicuramente la medicina per troppo tempo
ha perso di vista il malato. Nei primi anni
Ottanta sembrava che gli ospedali avrebbe-
ro potuto funzionare molto bene operando
solo su organi isolati, senza il corollario del-
le cose che fanno “perdere tempo”.
Quante volte le persone mi dicono: “Mi scu-
si dottore se le faccio perdere tempo, vorrei
sapere quali sono le condizioni di salute di
mio papà”. Ecco, nel momento in cui io me-
dico non ho in mano uno strumento, ma sto
interagendo con una persona, nell’immagi-
nario sto perdendo del tempo, perché io sono
un tecnico. Tutto questo non è vero. Negli
ultimi anni molto si è fatto per rivedere que-
sta impostazione. I sistemi sanitari hanno
recuperato una visione olistica (anche se
adesso si abusa di questa parola) mettendo
al centro l’ammalato... e quella è stata la
frittata! Perché si è riacquistato interesse e
attenzione ai bisogni del malato, ma sempre
nella posizione in cui io corrispondo ai tuoi
bisogni, punto.
Se l’obiettivo è la bidirezionalità, beh, que-
sta non è rispettata dalla posizione centrale
del malato. In più così si mette l’ammalato
in una condizione di passività che lo profes-
sionalizza ancora di più: lo metti fuori dal-
la città, lo consegni nelle mani dei medici e
delle infermiere e intanto tu, società, aspetti
che torni. Ma magari non c’era bisogno che
smettesse di lavorare... L’ammalato al cen-
tro non solo viene quindi temporaneamente
espulso dalla società, ma anche rispetto agli
operatori sanitari si trova in una posizione
del tipo: “Io chiedo, se qualcuno ha qualcosa
da darmi, grazie”. Non io chiedo e do. Ecco,
da noi l’ammalato sta attorno al tavolo, si dà
da fare come gli altri; il simbolo del buffet è
questo.
Diceva che alcuni malati riscontrano
anche dei benefici fisici, misurabili...
Sì, con il tempo abbiamo scoperto che questa
esperienza induce dei cambiamenti anche in
alcuni aspetti di qualità della loro vita. Ab-
biamo raccolto dei dati sia a Carrara che a
Bolzano.
Per ora quello che emerge è che grazie a
queste iniziative diminuisce il livello di
stress legato all’ospedalizzazione, vengono
facilitate le relazioni tra operatori e pazien-
ti, per alcuni addirittura migliora la qualità
e la durata del sonno, diminuiscono gli epi-
sodi di nausea e vomito.
E per gli operatori cosa significa?
Parlo per me. Vedere una persona che torna
in ospedale, dove magari è stata la mattina
o una settimana prima, e si siede magari
sulla stessa sedia dov’era rimasta in attesa
di una terapia sgradevole o di una notizia
a volte non buona; ecco, vedere una perso-
na che senza averne alcun bisogno torna in
questo luogo e si siede su quella stessa sedia
per fare qualcosa di diverso, di bello, mi fa
pensare che forse abbiamo instaurato una
relazione buona, credibile; che abbiamo crea-
Fare musica significa dare senso alle cose. Rendere ricco un momento dell’esistenza, forse
un’intera esistenza. Condividere delle emozioni, forse le più intime, quelle che non si possono
dire. Da queste premesse nasce l’esigenza dei Donatori di Musica. Non diversamente dai
donatori di sangue, i musicisti possono dare qualcosa che hanno, sapendo che quella cosa
sarà altrettanto essenziale per chi l’ascolta. Ma ci sono due peculiarità in questo modo di
donare: l’idea che volontariamente essi scelgono di condividere la musica al di fuori della
situazione “protetta” della sala da concerto, dove sono normalmente su un palcoscenico e
in una posizione privilegiata; e, in secondo luogo, il fatto che ad ascoltarli saranno persone
dall’esistenza speciale, con un diverso sguardo sulla vita, sulla sofferenza, sull’affettività.
Per questo ogni musicista sa che non può restare “sul palcoscenico”, non può risparmiarsi.
Deve mettersi in gioco, a disposizione, mettere in campo la sua generosità. Ecco le condizioni
grazie alle quali la donazione si realizza appieno: un darsi che è anche un ricevere, scoperta
di sé e ritorno all’essenza della musica, dare senso alla cose attraverso le emozioni di chi
suona e di chi ascolta.
Luigi Attademo
per me è sempre molto commovente
quando qualcuno ci viene
a trovare pur non avendo più bisogno
Bolzano, 5 luglio: Concerto di Gemma Bertagnolli e Giovanni Bietti