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te ciò che faranno con voi, ciò che una certa
professione ha deciso di fare. Lo scenario
di cui ho parlato, in cui, se vogliamo dare
e mantenere un senso, ci ritroviamo molto
soli, è anche una possibilità per coltivare
un’intensa amicizia che non era concepibile
in un mondo di legami ereditari, di cultura
abitudinaria, di decoro borghese, di ricchez-
za e di sicurezza. La mia speranza è questa.
Altre non ne ho”.
L’eliminazione dell’“io” attraverso la
statistica
Alla fine degli anni Novanta, poco prima
della fine del millennio, Ivan dovette verifi-
care per la terza volta le ovvietà sulle quali
pare poggiare la visione del mondo odierno.
Nel settore dell’attività medica era compar-
so un nuovo termine: “il rischio”. Un termi-
ne che non definiva qualcosa di esistente,
non era una metafora, bensì il simbolo per
un atto costruttivo-matematico. A differen-
za del pensiero cibernetico, il rischio mina
ogni rappresentazione collegata alla realtà
e con essa la certezza di malattia e salute.
Una delle prime volte che Ivan Illich par-
lò pubblicamente di “rischio” fu a Bologna.
Lì menzionò la difficoltà rappresentata dal
fatto che non è più sufficiente -com’è invece
il caso del sistema immunitario- intendere
storicamente il potere simbolico di questa
parola, se riferita a se stessi, in una forma
disincarnata. Perché il rischio, diceva Ivan,
non è più la rappresentazione di un quadro
realistico (come quello del circuito cardio-
vascolare pensato come computer). Questo
“spazio” viene creato attraverso un calcolo
di probabilità matematico, con correlazioni
e scenari futuri che prescindono da tutto ciò
che rende identificabile una persona speci-
fica. Nelle sessioni di consulenza genetica
analizzate da Silja Samerski, questo spo-
stamento si esprime, al di là della metafo-
ra, in un’estinzione della persona che dice
“io” e parla di sé, in un ammutolire radicale
della “cliente” rispetto all’esperto, alla quale
comunque quest’ultimo si rivolge personal-
mente.
A sua volta, per il medico che basa il proprio
lavoro su valori di rischio, la prima verità
del rischio significa che non può più agire in
modo medico. In regime di rischio, malattia
e salute non più sono concetti significativi.
Il posto dei sintomi riconoscibili viene pre-
so da mere probabilità, il posto dei giudizi
motivati viene preso dalla correlazione dei
fattori di rischio, il posto delle prognosi sul
decorso della malattia viene preso da un fu-
turo virtuale e calcolato a tavolino e il posto
della pratica esperienziale viene preso da un
poker di probabilità alternative. Trattare un
probabile cancro al seno e operare un tumo-
re evidente -calcolare un rischio o riconosce-
re un pericolo esistente- sono due attività
non paragonabili, la distanza tra le quali è
almeno pari a quella tra realtà e sogno.
La critica di Ivan colpisce al cuore la colo-
nizzazione del futuro e il rapimento della
persona dal momento presente che determi-
na la sua presenza piena e reale, qui e ora,
e che è all’origine dell’amicizia, del dolore e
della gioia.
Il seme dell’amicizia
Ivan richiamava l’attenzione, passo dopo
passo, sulla potenza mitopoietica della me-
dicina e dell’impresa-salute: la promessa di
rimedi istituzionalizzati contro l’ammalarsi,
l’invecchiare, il morire, come una privazione
della capacità di accettare il proprio destino
e della “conditio” umana.
Ha rivelato le minacce associate a queste
promesse: la cura personale viene scorag-
giata; la ricerca del dovere personale viene
estinta; l’ospitalità per il sofferente diventa
apparentemente inutile.
La responsabilità personale per il nostro
prossimo viene affidata all’istituzione. So-
prattutto, la terminologia dominante di-
strugge il senso della realtà e la possibilità
di dire “io” e di parlare di sé con senso e ve-
rità. Solo chi padroneggia l’arte di morire e
di soffrire può coltivare un’arte del vivere,
sostenne Ivan in una conferenza. Solo co-
loro che, insieme ad altri, si fanno carico e
hanno il coraggio dell’incerto procedere sul
filo dell’amicizia, sono in grado di dire “No,
grazie!” alla “salute sotto la propria respon-
sabilità”.
In fondo era questo che Ivan cercava di col-
tivare: la speranza di una reciproca frater-
na vicinanza era quel seme di luce che egli
emanava.
(traduzione di Martina Salvadori)
Ivan Illich a Brema