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C’è una tendenza scientista a pensare che
la biologia possa essere confinata in nume-
ri, cut off, categorie, per cui tutto quello che
entra nello schema va trattato, tutto quel-
lo che non entra non va trattato. In realtà
il mondo della biologia, e della medicina in
particolare, è molto più sfumato. Dopo aver
letto queste 150 pagine mi sono reso conto
che gran parte dei pazienti che ho davanti
sono diversi da quelli lì. È vero che potrei
fare degli studi sempre più particolareg-
giati, ma non potrò mai avere dei dati che
intercettino tutte le caratteristiche di ogni
singolo paziente.
Allora dovrei fare magari uno studio diffe-
renziando gli effetti che il farmaco ha sui
giovani o sugli anziani, sugli uomini o sulle
donne; dovrei poi fare uno studio di verifi-
ca sulle donne anziane diabetiche. Ma cosa
potrei dire degli effetti sulle donne anziane
diabetiche con più di 80 anni e su quelle con
meno di 80 anni? Se porto questo discorso
all’infinito non troverò mai alcuna soluzio-
ne. Allora tanto vale fermarsi prima, dire
quali sono le indicazioni generali ottenute
dallo studio e poi cercare di capire, caso per
caso, se il trattamento può essere o meno
favorevole al paziente. Inoltre, va detto che
per introdurre un nuovo farmaco nel mio
armamentario terapeutico devo disporre di
vantaggi rilevanti, non solo dello zero vir-
gola qualcosa, perché, anche se dal punto di
vista statistico il dato sperimentale rispec-
chia i criteri della significatività statistica,
magari dal punto di vista della rilevanza cli-
nica è invece del tutto marginale e non giu-
stifica la spesa per un nuovo trattamento.
Lei denuncia una certa informazione
scientifica e medica superficiale, ecla-
tante oppure addirittura condizionata…
C’è una ricerca indipendente, onesta, svolta
da ricercatori che vogliono capire cosa succe-
de. In altri casi, invece, la ricerca è condizio-
nata e molto spesso per l’intervento delle in-
dustrie che producono farmaci e dispositivi,
pur nell’ambito di procedure standard che
vengono chiamate Good clinical practice. Ci
sono, infatti, all’interno di queste Good cli-
nical practice dei margini per fare in modo
che le conclusioni della propria ricerca siano
il più positive possibile. Su questa si sovrap-
pone un’informazione a sua volta parziale:
da una parte il ricercatore, comunicando i
propri risultati, cercherà di sottolineare più
gli aspetti positivi che quelli negativi, per-
ché vuole dare la maggiore enfasi possibile
al proprio lavoro, dall’altra parte anche l’in-
dustria, che ha dei grandi interessi econo-
mici, tenderà a far risaltare solo gli aspetti
positivi e non quelli negativi dell’applicazio-
ne di un nuovo ritrovato. Attraverso tutta
questa filiera del messaggio quello che arri-
va al lettore è un messaggio distorto. è dif-
ficile individuare chi sia disonesto; ognuno
aggiunge un pezzetto di distorsione e quello
che arriva al fondo non corrisponde al mes-
saggio iniziale. Per ultimo, bisogna tenere
conto di quello che capisce il lettore.
Quanto contano gli interessi extra-la-
vorativi nelle decisioni sanitarie?
Il conflitto di interessi dal mio punto di vista
non consiste soltanto nella monetizzazione,
nella corruzione, quella volgare di quando
ti danno diecimila euro se prescrivi deter-
minati farmaci. Il conflitto di interessi è il
condizionamento del proprio lavoro dovuto
a interessi che esulano dal rapporto fra il
singolo medico e il singolo paziente.
Immagini un centro specialistico dove si
fanno determinate procedure diagnostiche;
per mantenere la competenza bisogna farne
un certo numero all’anno, ma se il numero
diminuisce per condizioni epidemiologiche
o anche solo perché hanno aperto un altro
centro nell’ospedale vicino, cosa succede?
Che nessuno dei due centri ha più le compe-
tenze sufficienti per rimanere al passo con
l’evoluzione tecnologica, con la manualità,
con l’esperienza. E tuttavia è difficile che
uno dei due centri chiuda, è più facile che
vengano fatte fare procedure anche a pa-
zienti che non ne hanno così tanto bisogno.
Su questo punto devo dire che la program-
mazione sanitaria è molto carente. Dovreb-
be essere la Regione a stabilire quanti cen-
tri sono necessari per eseguire determinate
procedure. E invece c’è una corsa ad acqui-
sire tutte le competenze possibili. Il diret-
tore generale dell’assessorato alla sanità in
alcune conferenze ha dichiarato che con il
numero dei laboratori di emodinamica attivi
in Piemonte, tenendo conto del numero di
operatori che ci devono essere in ogni centro
e del numero di analisi che ogni operatore
dove eseguire per mantenere un’adeguata
competenza tecnica, mancano duemila in-
farti all’anno in Piemonte. Considerazione
lodevolissima, ma all’obiezione “siete voi che
le avete approvate”, la risposta è stata che
è il sistema sociale che spinge per la molti-
plicazione dei centri; l’ospedale, il sindaco,
il direttore generale, gli stessi cardiologi di
quella zona vogliono il loro centro e “noi non
siamo in grado di opporci”. Però se non è in
grado la Regione di regolare l’attività, fran-
camente, non si sa chi possa farlo.
Tornando ai medici, molti già oggi si rendo-
no conto di un’eccessiva invadenza del pro-
prio lavoro nelle vite private delle persone,
imponendo trattamenti mediamente più ef-
ficaci e “per il bene del paziente”.
Costoro percepiscono il disagio di una me-
dicina parcellizzata, riduzionista, che ha
stabilito in modo dogmatico, cosa è meglio.
La medicina si sta appiattendo ad applicare
protocolli standard a chiunque.
Giorgio Israel, storico della scienza e mate-
matico, ha scritto
Per una medicina umani-
stica
(Lindau, 2010), con sottotitolo
Apolo-
gia di una medicina che curi i malati come
persone
. Israel, proprio osservando che la
medicina sta perdendo una delle sue carat-
teristiche peculiari rispetto a tutte le altre
scienze, che è quella del rapporto umano,
afferma che vi è una forte incongruenza:
perché mai i medici si mettono a misurare
tutto quando hanno accesso a una potenzia-
lità così importante che è il rapporto umano,
la conoscenza del singolo paziente, che va al
di là di tutte le possibili misurazioni?
è giusto utilizzare le misure per capire i fe-
nomeni, ma poi il rapporto di cura bisogna
giocarselo con il paziente.
(a cura di Enzo Ferrara.
La versione integrale è uscita su
Una città n° 177, settembre 2010)
dopo aver letto queste 150 pagine mi
sono reso conto che gran parte dei
pazienti che ho davanti sono diversi