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ziente non guarisca, che la procedura vada
male. E certe volte fra queste due angosce si
creano delle scintille, dei conflitti che diven-
tano difficilmente gestibili.
Com’è possibile superare questi limiti
nella medicina contemporanea?
Ci sono due punti secondo me importanti:
il primo impone di tenere conto dell’impor-
tanza della ricerca scientifica, dell’evoluzio-
ne tecnologica, ma il secondo ci ricorda che
non ne dobbiamo diventare schiavi. Non
dobbiamo neppure ricadere nella situazione
precedente, quella in cui ogni medico faceva
quello che riteneva più importante, senza
dover rispondere delle sue scelte.
Il mio messaggio non è quello di ritornare ai
“bei” tempi andati. Piuttosto, partendo dalle
conoscenze che abbiamo adesso e da quelle
che avremo in futuro, è necessario muoversi
verso una personalizzazione, una individua-
lizzazione della medicina in cui la tecnologia
e le conoscenze derivanti dalle ricerche svol-
gono comunque un ruolo determinante. Se
invece usiamo le misure solo come strumen-
ti indiscutibili, perché le riteniamo oggetti-
ve, allora possiamo arrivare a commettere
grossi errori.
Quello che affronto tutti i giorni è, da un
lato, un tentativo di smitizzazione della pre-
sunta oggettività della scienza, dall’altro,
uno sforzo di re-indirizzamento delle ricer-
che verso le necessità particolari e personali
di ogni malato.
Vorrei specificare che in alcune situazioni,
per esempio nel caso dei bambini, dei quali
ho poca esperienza, alcuni dei ragionamenti
che io faccio non si possono applicare. Per
esempio, bisogna capire quando la medicina
non può dare più molto o può dare qualcosa
che è però irrilevante nella vita di un pa-
ziente. Ma un conto è il caso di un paziente
di 85 anni che ha già avuto numerosi rico-
veri e interventi chirurgici, per cui ci si può
fermare a riflettere. Un conto è aver a che
fare con un bambino con la leucemia, per il
quale vale la pena di dedicare tutte le ener-
gie, compreso il farmaco sperimentale, per
provare veramente di tutto. In questo caso
si può salvare una vita che poi avrà un’e-
stensione ulteriore di altri venti o trenta
anni almeno.
Il problema di cui parlo si pone per la gran
parte dei pazienti, invece, che frequentano i
nostri ospedali, ai quali diamo delle speran-
ze di vita aggiuntiva di qualche settimana o
al massimo di qualche mese.
Allora ci dobbiamo porre il problema: che
tipo di speranza di vita gli do? Questo mese
che gli daremo in più, come lo passerà? Ne
vale la pena, sì o no? Dobbiamo imparare a
confrontarci tra medici e con pazienti e pa-
renti. Bisogna sempre porsi il problema dei
limiti.
Questo per quanto riguarda la cura.
Ma cosa pensa della possibilità di agire
Marco Bobbio è primario della Cardiologia
dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo.
Il libro di cui si parla nell’intervista è
Il ma-
lato immaginato. I rischi di una medicina
senza limiti
, Einaudi, 2010.
Cosa intende con l’espressione “il ma-
lato immaginato”?
Il vero problema del sapere medico contem-
poraneo, nascosto, latente, sono i limiti del-
la medicina. Al giorno d’oggi si parla sempre
dei traguardi futuri, si dice che si vivrà fino
a 130 anni, che si curerà questa e quella ma-
lattia. Ma non si riflette abbastanza su che
cosa tutto questo significhi. Quando a una
riunione ho sentito affermare che si potrà
arrivare fino a 130 anni non mi sono trat-
tenuto dal commentare: “Non auguro a nes-
suno di vivere fino a cento anni per doversi
occupare della madre di 130”. Purtroppo, un
altro grande problema attuale è che tutta
l’evoluzione tecnologica -che è indispensabi-
le, fondamentale- viene però spesso utilizza-
ta in modo non appropriato. C’è un ricorso
alla tecnologia anche quando non è suffi-
cientemente conosciuta e magari dopo anni
ci si rende conto che i vantaggi prospettati
non sono confermati. Nel frattempo i tratta-
menti sono entrati nella routine e non è più
nemmeno facile tornare a farne a meno.
Il termine “immaginato” si riferisce al ma-
lato per come viene rappresentato dai medi-
ci per dare forza e lustro alla medicina e al
proprio lavoro. Allo stesso modo, si riferisce
a come anche i malati arrivano a immagina-
re se stessi, ma al di là del malato immagi-
nato c’è il malato reale.
Nel libro introduco anche il concetto della
medicina sostenibile, un termine che di so-
lito viene utilizzato in ambito economico e
riferito alla sostenibilità economica della
medicina. In realtà, affermo che la medicina
è sostenibile se è sostenibile da quel pazien-
te, dal suo contesto affettivo, dalla sua vita,
dal suo assetto emotivo. Certe volte alcuni
pazienti non accettano un determinato trat-
tamento in un momento in cui sono fragili,
deboli, ma lo richiedono sei mesi dopo, ed è
del tutto legittimo.
Oppure accade il contrario, che i pazienti si
pentano per aver accettato un trattamento,
perché emotivamente erano stati trascinati.
Quello delle emozioni è un argomento che
non viene quasi mai trattato nei libri di te-
sto né nelle conferenze mediche. Ma è un er-
rore, perché questo è un po’ anche il nucleo
della innegabile conflittualità che c’è fra me-
dici e pazienti dovuta in gran parte al fatto
che il paziente è spaventato, preoccupato,
così come il medico è angosciato che il pa-
in difesa della salute anche con la pre-
venzione?
Quando parlo di prevenzione, la intendo
sempre in ambito strettamente medico, per-
ché non conosco gli altri contesti, come la
prevenzione ambientale, per esempio. Ma
certamente questa visione ristretta della
prevenzione è un limite della medicina in ge-
nerale e mio in particolare. Perché limitando
gli aspetti della prevenzione al solo ambito
medico, va a finire che si pone l’accento solo
sull’aspetto individuale, colpevolizzante, che
non tiene conto degli aspetti sociali.
Io posso colpevolizzare una persona che
non fa abbastanza moto o che compra cibi
preconfezionati nei supermercati, ma se
tutto il mondo gira così, se tutta la pubbli-
cità gira così, l’unico risultato è che questa
persona si sente in difetto tutte le volte che
va al supermercato. La medicina non ha un
grosso interesse per la prevenzione anche
perché il risultato non è tangibile. Se opero
un paziente moribondo ottengo un risultato
immediato. Quando avvio un programma di
prevenzione contro l’infarto, non si vede il
risultato. La prevenzione è un investimento
che non ha un ritorno quantificabile e quin-
di dà meno soddisfazione.
Lei è perplesso su un certo uso delle li-
nee guida.
Io sono nato professionalmente come meto-
dologo della ricerca e questo è stato il mio
principale campo di lavoro. Anche negli Sta-
ti Uniti ho lavorato in questo settore. E sono
stato un grande fautore sia della “medicina
basata sulla prova di efficacia” sia delle li-
nee guida, e mi rendo conto -non dico che
sono pentito, né di averle abbandonate- che
questi strumenti sono molto importanti, ma
vanno utilizzati in un modo adeguato.
Invece, proprio mentre si tende a farne un
uso dogmatico, ci si accorge che la ricerca
scientifica fornisce sì delle informazioni, ma
non fornisce dei dati assoluti e quindi va in-
terpretata e utilizzata in modo appropriato.
Posso dire che c’è una sopravvalutazione
della statistica soprattutto da parte di chi
non conosce bene i problemi quotidiani del-
la medicina. Non si possono stabilire delle
regole assolute per decidere quali pazienti
debbano essere trattati e quali no.
Ho qui davanti le linee guida italiane per
la diagnosi e il trattamento del diabete. Ci
sono documenti analoghi della Scozia, di
varie società americane ed europee che ri-
petono le stesse cose. Sono 150 pagine, dop-
pia colonna, corpo otto, di definizioni, pre-
cisazioni, classificazioni, come se i pazienti
potessero essere tagliati col coltello: questo
ha bisogno di quel trattamento e quello no.
I limiti del medico
Tornare a vedere il malato come persona usando la tecnologia e le conoscenze di oggi, evitare di affidarsi esclusivamente
alle misurazioni e agli standard prestabiliti, porsi, insieme ai pazienti e ai parenti, il problema dei limiti della cura, in tanti
casi chiedersi che tipo di speranza si dà. Intervista a Marco Bobbio.
quello delle emozioni è un argomento
che non viene quasi mai trattato
nei libri di testo né nelle conferenze
la medicina non ha un grosso
interesse per la prevenzione anche
perché il risultato non è tangibile