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tro i binari; non per chi usa l’intuito come
base dell’esperienza umana. In questi casi
l’insistenza della proposizione terapeutica
in virtù di una possibile maggior risposta
comporta danni e intrusività.
E che dire del termine “sopravvivere” da
noi usato in tutte le casistiche! è vero che
stiamo sopravvivendo allo tsunami, alle
guerre, ai genocidi, agli stupri in un’epoca
che permette ad alcuni di godere con altret-
tanta facilità, intensità e brevità delle bel-
lezze del creato e dei prodotti di consumo
e di prestigio… Ma è questo malessere che
vogliamo ripercorrere nel proporre le nostre
terapie? La crisi per la malattia può essere
l’occasione per riprenderci la vita, ritrovare
l’essenzialità e il gusto dell’anima e non solo
continuare a sopravvivere.
Quando ci ammaliamo è un momento do-
loroso e ricco di riflessioni e riproposizioni,
paure e speranze, semplicità e bisogni. Poco
viene restituito alla scienza e al mondo ri-
spetto alla passione che ciascun individuo
esprime nei percorsi di diagnosi, cura, rispo-
ste e progressioni. Del resto, le persone a cui
capita una malattia che comporta una crisi
profonda, e quindi una rivisitazione del sen-
so della vita, rappresentano una distonia
dei sistemi valoriali attuali e non innescano
processi di rinnovamento culturale.
L’uso del linguaggio mediatico non ha sor-
tito un’attiva partecipazione della popola-
zione nel processo di salute in oncologia:
l’uso di alcune parole che svelano le nostre
credenze profonde rispetto al cancro e l’indi-
cazione a comportamenti rigidi e sottomes-
si, ci porta a una in-cultura sanitaria in un
campo che pure è pieno di buone intenzioni
e buone terapie.
Mi sembra di capire che voi privilegia-
te una complessità del vivere la malat-
tia e della cura...
Quando viene diagnosticata la presenza del
cancro, presi dal capire cosa succede in ter-
mini biologici, a noi terapeuti risulta diffi-
cile “ascoltare il corpo” dell’altro in termini
biografici, relazionali, emozionali. Questa
mancanza di ascolto del disagio crea uno
iato nella scienza e nell’organizzazione. La
scienza risulta parziale e artefatta se -una
volta agita la scorporazione degli organi
per focalizzarne il problema specifico- non
lavora sulla riconnessione individuale e si-
stemica. Parlare di medicina d’organo (come
appunto: tumori al seno) facilita la conver-
sazione e l’indirizzo scientifico, ma allon-
tana dalla complessità della cura e dalla
possibilità di catturare la realtà da parte
della scienza. Nella mia pratica medica po-
che volte ho assistito alla scorporazione del
seno, del polmone, della laringe, del colon
da parte dei pazienti, mentre assisto a un
proliferare di pubblicazioni e di studi seg-
mentari sia in ambito medico che psicologi-
co. La focalizzazione d’organo è necessaria
quanto l’incorporazione della dinamica si-
stemica. L’attenzione all’organo va messa
a fuoco e poi allontanata per uno sguardo
d’insieme che comprenda lo sfondo. Per ca-
pire la complessità della realtà-malattia, di
cui facciamo parte anche noi che prescri-
viamo, dobbiamo allertare tutti i sensi ed
entrare nel vuoto prescrittivo per arrivare
liberi alla decisione terapeutica condivisa e
trascendentale. Nella scienza le zoommate
tra l’obiettivo macro per la lettura del ve-
trino e l’obiettivo a distanza per la visione
del contesto e della dinamica relazionale ed
emozionale sono assolutamente necessarie.
La scienza, quindi, sarebbe troppo de-
dita al segmento?
Le definizioni specialistiche facilitano l’in-
dirizzo del percorso, ma separano e disin-
tegrano l’esperienza. L’esperienza di chi si
ammala, d’altra parte, resta isolata e non
riesce a diventare cambiamento e rinno-
vamento culturale. Faccio un esempio di
indirizzo specialistico. Nel ’75, all’Istituto
Tumori di Milano, mettemmo in piedi una
divisione di Terapia del Dolore. Anche se
sottolineava un problema trascurato nella
cura oncologica, la definizione di terapia del
dolore mi pareva già una stonatura. L’aper-
tura di una Divisione di questo genere -faci-
litata dalla convinzione (spesso errata) che
la malattia oncologica comporta dolore- ci
permise di mettere a fuoco strategie aneste-
siologiche e farmacologiche, ma separò nel
malato l’esperienza del dolore cronico e inco-
ercibile dal resto delle cure e noi analgesisti
dai sistemi sanitari oncologici.
Nel tempo, più carica di esperienza clinica,
libera da vincoli di ruoli e pastoie identita-
rie, mi adoperai per riorganizzare la scienza
medica oncologica in maniera meno settoria-
le. Nei protocolli di cura d’eccellenza -come il
protocollo della Forza Operativa Nazionale
per il Carcinoma Mammario- abbiamo fatto
scomparire il termine “terapia del dolore e
riabilitazione” reimmettendo le procedure
specialistiche in ogni atto curativo, con una
visione anticipatoria del dolore cronico e del
disagio fisico e psicologico, all’atto stesso
dell’osservazione clinica oncologica.
Oggi restano in piedi e sorgono nuovi cen-
tri di Terapia del Dolore che vengono sem-
pre più associati a un’altra segmentazione
dell’esperienza umana: a quella fase evo-
lutiva che non risponde più alle terapie e
che è stata definita terminale e della cura
palliativa. Le strutture di accoglienza sono
necessarie in un mondo che non ci lascia il
tempo di assistere i nostri cari, pena l’esclu-
sione sociale, tuttavia separa l’individuo dal
contesto di cura esplicata in precedenza. La
separazione e l’accoglienza riparatoria sono
ormai insite nel nostro sistema sanitario.
Il fiorire di tante associazioni di persone
operate e la produzione di tanti libri che
raccontano dell’esperienza individuale dopo
la malattia fa dedurre che l’organo è cura-
to e delegato agli ospedali e il corpo -con la
sua emozione e le sue relazioni- rimasto in
solitudine, richiede sostegno in luoghi di
possibile dialogo tra simili, a dimostrazione
che anche l’integrazione nei sistemi sociali e
familiari a volte risulta difficile quando non
impossibile.
Per sollevare le persone nella fase di disa-
gio per l’evolutività della malattia sono nate
associazioni di “assistenza al malato termi-
nale di cancro”. è un messaggio di preoccu-
pazione da parte del mondo del volontariato
per le persone che vengono poco assistite
nelle strutture pubbliche e che restano spes-
so sole.
Tuttavia, ancora una volta la strutturazione
di luoghi e di azioni di accoglienza separa-
ta, perpetua le nostre credenze limitanti sul
cancro. Solo i malati di cancro vanno in fase
terminale? Che differenza c’è tra un termi-
nale di cancro e un terminale di un’altra
malattia? La struttura separata e ultraspe-
cialistica conferma e non stempera il tabù
(cancro uguale malattia dolorosa e portatri-
ce di morte), oltre a inficiare le belle proposi-
zioni da noi usate nella fase di prevenzione
oncologica.
Quindi, l’eliminazione del dolore è sacrosan-
ta, sacrosante sono le crociate per togliere i
vincoli alla somministrazione dei narcotici
e a quant’altro sia utile alla buona morte.
L’errore è quello di introdurre “unità/divi-
sioni” ospedaliere specifiche separando il
dolore dagli atti di cura oncologici e artificio-
samente defininendo “terminale” il processo
di avvicinamento alla morte. Ci dovrebbero
essere al loro posto laboratori di ricerca, di
verifica e di insegnamento del buon modo
di procedere per la prevenzione e il sollie-
vo del dolore, là dove questo si presenti con
intensità prima che arrivi a essere cronico
e intrattabile. Eviteremmo alcune induzioni
del tipo: “Se vado in terapia del dolore vuol
dire che sto morendo”, e agevoleremmo l’ar-
monia del lasciarsi andare...
Quindi, per concludere, come potrebbe
descrivere il vostro modo di lavorare?
Se le specificazioni possono diventare sovra-
strutture e possono contravvenire alla rego-
la della buona cura, l’astensione dalle defi-
nizioni può essere confusiva e disperdente.
Quando sono uscita dall’Istituto dei Tumori
e ho creato Metis con il gruppo di professio-
nisti che mi ha seguito con entusiasmo, ab-
biamo fatto scomparire parole che definiva-
no alcune nostre competenze in virtù di una
modalità di attenzione alla persona e ai suoi
sistemi di appartenenza: via dunque onco-
logia, senologia, riabilitazione, terapia del
dolore, psicologia… Semplicemente Metis,
una figura mitologica con i suoi significati
profondi e nascosti. Cos’è successo? Al di
là dei collegamenti di ricerca con strutture
specialistiche (lo storico Int e il neonato Ieo
di Milano) e al di là del passaparola e dei
percorsi carsici di internet, non è facile indi-
viduarci. Restiamo la nicchia per pochi. Né è
facile trovare fondi per la ricerca integrata.
Ogni tanto ci offriamo l’opportunità di in-
contrare le persone che ci hanno comunque
scovato, stimolandoci a incontri d’arte e d’a-
micizia. In queste occasioni le persone rico-
noscenti per questo modo di lavorare libero
e complesso danno il loro contributo, anche
con minime donazioni, a far sì che la nostra
esperienza possa continuare a procedere
fuori dalle luci della ribalta, ma dentro il
cuore e lo spirito inquieto di ciascuno.
(a cura di Paola Sabbatani,
Una città n° 129, maggio 2005)
le strutture di accoglienza sono
necessarie in un mondo che non ci
lascia il tempo di assistere i nostri cari
l’attenzione all’organo va messa a fuoco
e poi allontanata per uno sguardo
d’insieme che comprenda lo sfondo