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di trasporto. Grazie a questa eccessiva infor-
mazione di massa che illumina sui progres-
si della tecnologia medica, oggi si parla in
maniera diversa di “noduli” mammari. Così,
tuttavia, le donne mobilitate a partecipare
agli screening sono portate a pensare che il
tumore al seno sia la loro malattia preponde-
rante, dalla quale guariscono se si sottopon-
gono alle indagini richieste. In questa fase
sanitaria pochi si preoccupano di quanto
denaro si spende per mobilitare tante donne
per diagnosticare precocemente il cancro in
alcune di esse, di quali siano i loro disagi,
le loro aspettative nell’accogliere l’invito a
presentarsi nei centri di screening. Tra die-
cimila donne sottoposte a mammografia -se
tutto va bene, se il sistema funziona bene, se
le mammografie sono fatte bene, se i tecnici
le sanno leggere correttamente- scopriremo
cento donne con tumore, che nessuno aveva
diagnosticato prima, e altre 400 a cui chie-
deremo di sottoporsi a un iter diagnostico
più approfondito (ecografie, biopsie) per ave-
re la sicurezza che il sospetto di cancro sia
fasullo. Le cento donne con cancro accertato
potranno usufruire di interventi conservati-
vi, settanta di loro guariranno. Il messaggio
occulto che diamo è che se arriviamo tardi-
vamente alla diagnosi moriamo… Ma già 50
anni fa, senza diagnosi precoce, almeno la
metà delle donne con tumore al seno viveva
a lungo, anche se con esiti devastanti da chi-
rurgia, radio e chemioterapia. Oggi queste
terapie non comportano più mutilazioni ed
effetti collaterali insopportabili, quindi par-
liamo di esiti e disagi diversi, ma l’efficacia
è la stessa di 50 anni fa. E le donne di oggi
non sono da meno delle loro madri e delle
loro nonne nel mettere in campo le loro ri-
sorse di guarigione…
Lei quindi mette in discussione lo
screening?
Io dico che continuare a proporre lo scree-
ning nelle modalità messe finora in atto non
è più corretto: si può sfruttare meglio la mo-
bilizzazione delle donne per interagire con
loro, valutare altre proposte sia informative
che organizzative. Sarebbe giusto setacciare
solo le donne a rischio e non mobilitare quel-
le che mai nella vita (e sono tante) sviluppe-
ranno un cancro al seno, mentre, casomai,
sono sotto tiro di altre malattie ed avrebbero
bisogno di altre prevenzioni. Oggi, poi, mol-
te donne che si trovano di fronte alla diagno-
si di cancro e devono affrontare il percorso
terapeutico, continuano a sentirsi dubbiose
e sole, malgrado il flusso informativo e ope-
rativo che le campagne di screening metto-
no in atto.
La malattia tumorale è comunque diversa
in ciascuna persona, non solo perché è diver-
sa in termini isto-patologici e biologici, ma
anche perché essa si inserisce e si innesca
in una struttura psichica, corporea e rela-
zionale unica e non codificabile: c’è chi soffre
Gemma Martino è Direttore Scientifico di
Metis, il Centro Studi in Oncologia Forma-
zione e Terapia di Milano. Ha lavorato all’I-
stituto dei Tumori, ricoprendo il ruolo di di-
rettore di Divisione. Si occupa della qualità
di vita delle persone con tumore e della for-
mazione degli operatori sanitari “per il loro
ben-fare e il loro ben-essere”.
Può darci un quadro dell’informazione
sanitaria e della vostra attività?
Potremmo definire la nostra attività sanita-
ria una militanza, che si organizza per aiu-
tare le persone in crisi e rimane con i pori
aperti della sensibilità e dell’intelletto per
modificare i comportamenti della salute e
della malattia e la cultura intorno a essa.
Nel campo dei tumori, infatti, non sempre si
è proceduto con grazia.
L’immagine che diamo del cancro è che -se
preso in tempo- lo possiamo curare. Come
terapeuti siamo pronti all’azione e nel lin-
guaggio usiamo ancora metafore di guerra
che danno corpo alle nostre paure di avere
nemici che attentano all’invulnerabilità:
battaglie che si combattono, tumori che si
bombardano, esplosioni che si prevengono,
arruolamenti per lo screening. Una persona
che ha ricevuto una diagnosi di tumore dif-
ficilmente fa sue queste metafore guerriere,
piuttosto si prefigura immagini più natu-
rali, più geologiche -all’atto della diagnosi
è stato come un “terremoto” all’interno, un
“sovvertimento”, una “tempesta inattesa”-
che arrivano dal profondo dell’anima. Un
bisogno di ripararsi e capire prima di agire.
L’uso dei simboli e del linguaggio espres-
si nella varie fasi di prevenzione, diagnosi
e cura dei tumori la dice lunga sui diversi
tempi e modi di pensare, agire, comunicare
tra terapeuti e utenti/pazienti.
Un esempio alla portata di tutti è quanto s’è
mosso ed è stato promosso nel campo dei tu-
mori al seno. Qui, un uomo carismatico con
grandi capacità organizzative e relazionali,
Umberto Veronesi, seguito da un gruppo di
medici attivi e fedeli, ha impostato ricerche
cliniche, creato movimenti di opinione, mo-
bilitato il Parlamento. Del cancro al seno
ne parlano quotidiani, settimanali, men-
sili, le radio e le televisioni, politici e poli-
tiche. Per attivare le donne a sottoporsi a
indagini strumentali come mammografia ed
ecografia e cercare tumori in fase iniziale
che permettono di usufruire di trattamenti
chirurgici più conservativi del seno e di ot-
tenere dalle terapie complementari (radio e
chemioterapie), oltre che maggiori successi
di guarigione, molto materiale informativo
gira negli ambulatori, nei negozi, nei mezzi
del fatto che è stata intaccata la sua imma-
gine (“Come? Sono stata sempre bene!”) e
si arrabbia con se stessa e col mondo. C’è
chi dice: “Mi è venuta, avrà un significato di
cambiamento”.
C’è chi si colpevolizza: “So perché mi è ve-
nuta e non posso cambiare”. C’è chi rimette
il suo corpo affidandolo alla scienza e non si
mette in discussione. Basterebbe già questo
a indirizzarci sulla diversità di senso di una
malattia nominata genericamente uguale
per tutti: la malattia fa parte sia del sistema
sanitario che del sistema personale, relazio-
nale, culturale.
Quindi lei concentrerebbe le energie
anche su una “personalizzazione” della
cura...
Il sistema sanitario ha grosse possibilità di
ricerca mirata, ma sbaglia se non dà senso
ai suoi progressi comprendendone l’efficacia
nella considerazione del sistema biodinami-
co della persona con le sue relazioni e i suoi
valori. Partendo dagli stessi presupposti
biologici e sottoponendo le persone alle stes-
se terapie sappiamo che alcune guariscono,
altre si cronicizzano, altre vanno in progres-
sione.
Certamente molto dobbiamo ancora lavora-
re per trovare ulteriori specificazioni biolo-
giche e arrivare a diversificare sottogruppi
e terapie sempre più specifiche, ma saremo
sempre carenti se non immettiamo il dato
di valore: il senso che la persona dà alla
sua vita e l’efficacia delle altre mille fonti
terapeutiche, comprese quelle spirituali a
cui essa ha attinto. Ad esempio, l’uso con-
temporaneo di altre terapie non convenzio-
nali, come la realizzazione di sogni, la fuga
dagli impegni e dalle relazioni pesanti; e,
ancora, il ri-annodamento di nodi scorsoi,
l’attivazione dei processi di individuazione
o la decisione di lasciarsi andare e ritorna-
re all’origine del tempo. Domande e risposte
che devono rientrare nei dati statistici e ri-
empirli di senso e di relatività.
Pochi terapeuti condividono con i pazienti i
loro sistemi di valore e di relazione, pochi
individualizzano una terapia centrata sia
sulla tipizzazione delle loro cellule neopla-
stiche sia sulla dinamica della loro vita. Po-
chi terapeuti, inoltre, accettano di dialogare
con i loro pazienti sull’incertezza dell’anda-
mento della loro malattia e della relativa
risposta terapeutica. A domande del tipo:
“Ho questo tumore. Guarirò, vivrò?”, molti
sanitari cambiano il livello logico di rispo-
sta: “Un 60-70% di persone che hanno avu-
to il suo problema è sopravvissuto a cinque
anni”. Risposta accettabile per chi usa la
razionalità come modalità di restare den-
La malattia e la persona
Le facili illusioni della prevenzione di massa nel caso del tumore al seno. Un tasso di guarigione pressoché invariato da
decenni. Un approccio sempre più segmentato e standardizzato che non tiene conto della complessità della persona e dei
contesti. Intervista a Gemma Martino.
già 50 anni fa, senza diagnosi precoce,
almeno la metà delle donne
con tumore al seno viveva a lungo
a domande del tipo: “Ho questo
tumore. Guarirò, vivrò?”, molti sanitari
cambiano il livello logico di risposta