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incurabile. Questo va detto. Ci sono cure e
modi di affrontarlo che stanno trasforman-
do il cancro in un “male cronico”. Non vor-
rei essere troppo ottimista, ma sono anche i
miei medici che me ne parlano. Cure sempre
più personalizzate, adattate ai diversi tipi
di cancro, se non riescono ancora a far gua-
rire, riescono però ad allungare la vita del
malato, cronicizzando quindi la malattia,
facendola durare.
E siccome è aumentata molto anche la pos-
sibilità di salvaguardare la qualità della
vita di chi ha questa malattia, la tendenza
a cronicizzare il male è da vedere come un
fatto positivo.
Per questo penso che sia meglio parlarne,
per raccontare come alcune persone riesco-
no, nonostante la malattia, a vivere in modo
discreto.
Questo penso sia anche il mio caso. Il che
non vuol dire, però, che non abbia subìto
una rivoluzione totale della mia vita, del
Anna Segre ha insegnato Geografia all’Uni-
versità di Torino. è morta il 20 giugno 2004.
Sì, a un dato momento ho pensato che fos-
se giusto, utile, parlare di questa cosa; cre-
do siano passati i tempi in cui i malati di
cancro si celavano dietro malattie varie, di
solito dietro l’espressione “male incurabi-
le”, e non ne parlavano, né con gli amici né
tantomeno in pubblico. Di fatto si appren-
deva sempre che qualcuno era stato malato
di cancro dopo la sua morte, dal necrologio,
che diceva: “Stroncato da male incurabile, il
tal dei tali eccetera, eccetera”…
Ecco, io credo che i malati di cancro che
hanno la “fortuna” di sopravvivere a lungo
abbiano il dovere di parlarne. E non per for-
nire facili illusioni, come quei saggi che si
trovano in libreria o nelle erboristerie, in-
titolati “Come sono guarita dal cancro”, ma
perché altri possano trovare magari nelle
parole di una persona un aiuto, un modo di
affrontare la malattia che a loro non è venu-
to in mente, non è venuto spontaneo.
Teniamo presente che la stessa dizione
“male incurabile” non è più appropriata,
perché di fatto il cancro non è più un male
mio modo di pensare al tempo, al futuro.
Ecco, una delle cose più fastidiose quando
non si ha molto male, come nel mio caso, è
questa continua ospedalizzazione, nel senso
che tu vivi a casa tua, fai le tue cose, però le
scadenze vere sono quelle della visita, degli
esami, della cura, quindi sulla tua agenda
prima segni queste e poi, eventualmen-
te, aggiungi gli impegni di lavoro, se l’hai
mantenuto. Tutto dipende da quello e non
si può assolutamente fare diversamente…
Bisogna però anche dire che in questi posti
i medici, e ancor più gli infermieri, in gene-
re sono meglio che negli ospedali comuni,
nel senso che veramente svolgono un lavo-
ro difficilissimo, di responsabilità e -non è
una frase banale- sempre col sorriso sulle
labbra, con la parola giusta, per otto ore di
seguito. Io non ho mai capito come facciano.
Ammiro tantissimo queste persone. Vedono
passare i malati a migliaia e però si ricor-
dano sempre il tuo nome, o, meglio, il tuo
cognome, perché non è più il tempo in cui il
paziente viene chiamato nonna, nonno, op-
pure per nome. Si ricordano il tuo cognome,
come è giusto.
Io, il primo mese di malattia, credevo di non
La difesa della normalità
Il cancro da “male incurabile” sta trasformandosi, grazie all’avanzamento delle cure e alla loro personalizzazione, in un
male cronico, che si può tenere a bada, impedendogli di impossessarsi della propria vita. Intervista ad Anna Segre.
tu vivi a casa tua, fai le tue cose,
però le scadenze vere sono quelle
della visita, degli esami, della cura
Sono parole di cui sento un’eco nei modi in cui Anna ha vissuto la
malattia. Con smarrimento, paura, collera, tristezza infinita. Che le
sono rimaste. Ma gradatamente le è sbocciata anche tanta voglia di
vivere, e al meglio possibile nella situazione data. Aveva conquistato
più fiducia in se stessa, più fermezza nelle decisioni, un’elasticità
mentale che è di pochi -mi raccontava con che nuova facilità riusci-
va a intervenire nei dibattiti, di come il suo pensiero prendeva forma
e fluiva spontaneamente mentre parlava, anche quando si trattava
di temi nuovi. Continuava a fare lezione, a partecipare a convegni,
metteva insieme persone, coordinava ricerche. Si concedeva più
cose, oggetti per la casa, vestiti, viaggi, una scintillante auto blu, che
aveva guidato in una sola tirata fino a Bolzano in occasione di una
cerimonia per il Premio Langer; si era fatta costruire un caminetto
nel soggiorno della bella casa ai piedi della collina. Spero che non vi
sembrino divagazioni: in quei tocchi di leggerezza e “frivolezza”, in
quel desiderio di agio, si esprimeva una Anna in parte nuova, meno
doverista rispetto ai tempi in cui la nostra priorità era la politica,
più dolce con se stessa, più ragazzina, mi verrebbe da dire. E più
creativa: sono certa che tutti riconoscono l’originalità dell’“Atlante”,
a cominciare dall’immagine di copertina, quasi un simbolo della
sua sensibilità. Sono stati anni pieni. Anna si crogiolava nel calore
della nuova famiglia in cui l’aveva introdotta Claudio, si godeva
Leah, e Ada in versione materna.
Sperimentava cose nuove, la discesa di un fiume in canoa con tanto
di caschetto protettivo, nuove terapie per l’emicrania, l’incontro in
Canada con le balene, lo shiatsu, la scrittura narrativa -ricordo un
suo breve racconto in cui fotografava i vari tipi di borse che i pa-
zienti in attesa della chemioterapia portavano con sé a Candiolo,
scegliendo la strada difficile di far parlare gli oggetti e i gesti in-
vece di descrivere i sentimenti. Faceva progetti: una vacanza, una
speciale sorpresa per Claudio, un giro in Provenza alla ricerca del-
le terracotte locali, un soggiorno in una beauty farm dove tutti i
trattamenti erano a base di uva, un libro da scrivere insieme sulla
storia di Nella, Renzo e Carlo Angela, un altro che avrebbe dovuto
intitolarsi “Intanto vivo” e raccontare come la malattia (certe malat-
tie con l’“aura”, il cancro, l’infarto) ridefiniscono le relazioni, certe
amiche/i che si dileguano, persone meno intime che corrono a starti
vicino, alcuni che neppure chiedono: “come stai?”, perché è faticoso
cercare parole adatte, altri, che pur rischiando la goffaggine, prova-
no e riprovano a comunicare. Progettava il matrimonio, che è avve-
nuto, e subito dopo un viaggio con Claudio ad Agrigento. Ma fino ad
Agrigento non è potuta arrivare.
Difficile non accorgersi di quanto Anna somigli a sua madre in que-
sta determinazione a non disperdere il tempo che rimane, a capita-
lizzare le esperienze belle: “Amore per la vita”, lo ha definito Fabio
Levi. Ricordo l’ammirazione che tutte e due avevamo per queste pa-
role di un ex deportato: “Ero lì, e pensavo, Hitler può farmi di tutto,
ma il fatto di aver vissuto bene, facendo quel che mi piaceva, diver-
tendomi, quello non poteva togliermelo”. Credo che la forza di Anna
venisse anche dalla sua capacità di fare propri messaggi fuggevoli.
Non vorrei aver disegnato un’immagine eroicistica. Disperazione e
ripiegamento su se stessa a volte prevalevano. Come avrebbe potuto
essere diversamente? Anna non coltivava illusioni, solo speranze,
non aveva un atteggiamento guerresco verso la malattia, nessuna
sfida prometeica, nessuna scorciatoia psicologista; sulle orme di Su-
san Sontag, rifiutava l’ideologia che riconduce il male alla depres-
sione e le guarigioni al pensiero positivo. Anna sapeva; ma voleva
avere ancora bei giorni, passare tempo con le persone care, fare un’e-
scursione in montagna, una nuotata al mare, un saggio, un corso.
Questo e molto altro aveva raccontato in un’intervista a “Una città”,
uno dei testi più coraggiosi e generosi fra i tanti usciti finora. Forse
questo discorso sembra un’apologia, e non me ne dispiace. Anna la
merita per molte ragioni, non ultimo un tratto cui mi affido per con-
cludere, come mi sono affidata tante volte in passato per altre cose:
la virtù quotidiana della cura. Essere intelligenti è facile, un po’ più,
un po’ meno lo siamo tutti. La differenza sta nel cuore. Ricordo come
Anna si era prodigata per un’amica argentina, il suo dolore per il
dramma familiare di un’altra amica, la condivisione dei momenti
difficili dei suoi cari; ricordo una sua visita notturna mentre ero in
ospedale, e al mattino la aspettava la chemio.
Anna Bravo
Anna e la malattia