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ta, mi è successo di chiedere al malato, in
genere anziano, proprio per rompere questa
situazione: “Lei, cos’ha?”. E spesso la rispo-
sta è stata: “Ho un tumore”. Allora vedi i pa-
renti quasi svenire. La cosa ha poi un effetto
di sollievo enorme per il paziente e alla fine
anche per i parenti, perché tenere nascosta
una cosa è un dramma per tutti.
Insomma, è inutile prendersi in giro, se uno
fa una Tac, un’endoscopia, un esame compli-
cato, capisce che c’è qualcosa e se gli si dice:
“Non è niente” , lui sente che non gli si dice
la verità. Ma anche per i parenti è un gran
sollievo, perché gli si toglie il peso di dover
tener nascosta la verità. Devo dire che è un
sollievo anche per il medico. Avere a che
fare con persone informate, con cui si parla
in maniera trasparente, chiara, con le paro-
le giuste e ispirate dalla giusta sensibilità,
dà molte più soddisfazioni. È la soddisfazio-
ne di un rapporto di reciproca sincerità e di
pienezza del ruolo di entrambi, io medico e
tu paziente.
Ma sulla prognosi si può essere altret-
tanto chiari?
Sulla prognosi, cioè su come andrà a finire,
è un po’ diverso. C’è un aspetto di delicatez-
za, anche di umanità, che fa sì che questo
aspetto dell’informazione vada valutato con
attenzione. Dopo aver parlato chiaramente
della diagnosi, la domanda che viene sempre
più posta (e anche questo una volta non suc-
cedeva) è: “Ce la farò?”, che è la domanda più
vera, più sincera, e alla quale è difficile dare
una risposta. A volte instillare delle speran-
ze eccessive è un errore, ispirare speranza
in maniera sfumata forse è la cosa giusta da
fare. Quindi dare dei messaggi di complici-
tà, di serietà, però anche di speranza.
Credo che la risposta più veritiera e anche
corretta in fondo sia: “Speriamo di sì”, per-
ché anche il medico deve sperare. Perché il
medico ha delle certezze, però, qualche vol-
ta, soprattutto se le cose sono complicate...
Ecco, la prima persona plurale “speriamo”,
ha proprio questo senso e, nello stesso tem-
po, è un messaggio utile a far sentire che
“siamo sulla stessa barca”.
Il discorso di “stare sulla stessa barca” pone
però un altro problema comunicativo. Sulla
stessa barca i pazienti ci stanno se, durante
il percorso, che può essere anche lungo, le
cose vanno abbastanza bene. Perché il siste-
ma qualche volta può avere una falla, quin-
di la barca può anche essere abbandonata.
Oppure può essere abbandonata perché an-
che se tu, medico, ce l’hai messa tutta, le ri-
chieste, le esigenze, le aspettative che il pa-
ziente si è creato dentro di sé sono maggiori
delle possibilità che tu gli offri, per cui se ne
va, quasi sempre cercando delle altre solu-
zioni cosiddette alternative... Infine, può an-
che succedere, seppur raramente, che ci sia-
no delle possibilità che tu non sei in grado di
dare e che altrove esistono. Questo bisogna
riconoscerlo. È raro, perché parliamo di una
realtà, Bologna, in grado di fare quasi tutto,
però qualcosa ci può essere, e allora non bi-
sogna avere la presunzione di dare risposte
a tutto. Qualche volta il medico deve anche
attenuare il proprio orgoglio, l’ambizione di
essere in grado di risolvere tutto.
Anche rispetto a tutto questo la trasparenza
è la scelta migliore.
Capitano persone che dicono di non vo-
ler sapere niente?
Ci sono anche quelle, sono rare, ma ci sono,
non solo gli anziani. Ci sono persone che di-
cono: “Faccia lei, io non voglio saper niente”.
Gli anziani spesso sono quelli che rimango-
no un po’ nella posizione di incertezza, che
sanno, quasi sempre e però... L’anziano, poi,
in genere sta bene a casa sua, bisognerebbe
tenerlo lontano dall’ospedale, lasciarlo il più
possibile nel suo ambiente. Purtroppo oggi
sempre di più sono da soli, spesso con i fi-
gli lontani... Con gli anziani comunque non
bisogna “strologare” tanto su come compor-
tarsi, bisogna essere disponibili, perché per
l’anziano il massimo è vedere che c’è una
persona più giovane di lui, che è un medico,
cioè uno con il camice bianco, che gli presta
attenzione, che è gentile nei modi, che si sta
preoccupando...
Può raccontare un po’ di questi gruppi
di discussione...
Questi incontri sono nati due anni fa. Devo
dire che l’esca di questa iniziativa è stato
un ex paziente, Roberto Dall’Olio. Io sen-
tivo il bisogno di creare delle occasioni in
cui si potesse dedicare un po’ di tempo alla
comunicazione. Lui aveva fatto questo li-
bro di poesie sulla sua esperienza della
malattia e una di queste si intitolava “Se
ne parli”, che toccava il tema dell’informa-
zione, dell’importanza di tirare su il velo, di
non aver paura di parlarne. L’esperimento
è nato da lì, sostanzialmente. è un gruppo
che non è sempre lo stesso. C’è un nucleo
storico, di tre o quattro persone, poi ci sono
altre quindici-venti persone che girano. Le
tematiche prevalenti all’inizio erano quelle
dell’informazione, delle nuove terapie, poi
pian piano sono diventate quelle di caratte-
re più personale, del vissuto della malattia,
di quello che succede dentro le persone. La
malattia come colpa, come punizione, il sen-
tirsi un perdente, la paura di non farcela a
guarire, il tragitto della cura come la ma-
ratona: uno solo vince, ma nessuno perde,
l’alterazione dell’immagine corporea, come
ci vedono gli altri, l’assenza di chi non viene
più all’incontro... Poi ovviamente si discute
delle relazioni con i medici e gli infermieri
dell’ospedale, delle strategie per affrontare
la malattia, delle relazioni con gli altri, i pa-
renti innanzitutto.
Abbiamo una persona che viene quasi tutte
le volte e parla di sua figlia. L’ammalata è
la figlia, non la mamma, e la mamma parla
come se fosse lei. Lì c’è un problema di rap-
porti, per cui la ragazza non è mai venuta,
invece viene questa madre che parla pen-
sando di riferire il pensiero della figlia, ma
in realtà è il suo pensiero, è il suo vissuto.
Ecco, c’è anche il vissuto dei parenti.
La comunicazione può evitare che si
crei diffidenza e, nel caso, a prevenire
azioni di rivalsa contro l’ospedale?
Oggi si parla molto della sanità e uno dei
temi più vivi, in questi ultimi mesi, è come
gestire il rischio di creare dei danni in corso
di assistenza sanitaria.
Ovviamente si tratta di un rischio che non
potrà mai essere azzerato, questo deve es-
sere chiaro. Gli episodi di malasanità di cui
ormai si parla tutti i giorni, con un’enfasi
devo dire eccessiva, ci saranno sempre. Si
tratta di prevenire al massimo l’incidente e
anche di preparare il personale alla gestio-
ne del rischio. Oggi si investe moltissimo in
quest’ambito. Ci si sta muovendo per farlo
diventare patrimonio della cultura di tutti
gli operatori sanitari, medici e non medici. In
effetti questi incontri possono essere utili an-
che a prevenire il cosiddetto rischio clinico.
Se uno va a chiedere ai periti che fanno pe-
rizie per i tribunali, per le cause civili con
richiesta di risarcimento danni a un’azien-
da ospedaliera, se uno va a vedere bene,
nell’80-90% dei casi alla base c’è anche una
cattiva comunicazione. Se questa fosse stata
migliore non si sarebbe arrivati alla causa.
Allora, per prevenire il rischio clinico, una
“cura” della comunicazione è importantis-
sima. In tal senso queste iniziative si muo-
vono nella giusta direzione, anche se non è
quella la loro ragion d’essere. Però mi ren-
do conto che molti frequentatori hanno dei
“problemi”, interiori, certo, di rapporto con
la stessa malattia, ma anche esteriori, di
rapporto con l’ospedale. Avere uno spazio
dove uno può dire quello che vuole può es-
sere importante. Proprio stasera io ho spin-
to in questo senso, ad affrontare di più nei
prossimi incontri, quello che non va.
Da chi è formato il gruppo?
Roberto sin dall’inizio ha usato questa pa-
rola “reduci”, che non è sbagliata perché in
fondo si torna sul luogo della battaglia.
Negli Stati Uniti, dove sono sempre di più
quelli che si sono messi alle spalle la malat-
tia, si chiamano “survivals”, sopravviventi,
che in italiano non è molto bello. Comunque,
seguendo i loro siti, ho visto che anche a loro
il termine “survivals” comincia a non piace-
re tanto, perché l’idea del reduce, pensiamo
alle tantissime associazioni, si porta dietro
sempre un po’ di magone...
Il nostro è un gruppo misto, che vuol dire
che ci sono dei malati attuali, degli ex pa-
zienti, dei reduci, dei parenti. Ovviamente
l’eterogeneità rende la situazione partico-
larmente delicata, perché si tratta di condi-
zioni psico-emotive molto diverse. Io ero un
pochino preoccupato all’inizio e invece poi
ho visto che le cose funzionano.
Ho notato che ci sono perlopiù donne...
è vero. Il problema è che l’uomo è più chiuso
e la donna comunica più facilmente. Questo
è poco ma è sicuro. Poi c’è da dire che in pre-
valenza sono tumori della mammella, una
problematica che si trascina dietro problemi
di identità. Se uno non ha più un rene, a cau-
sa di un tumore, non ha un problema di iden-
tità, ha solo paura che gli torni la malattia,
invece una donna che ha avuto un tumore al
seno soffre per entrambi i problemi...
(a cura di Barbara Bertoncin.
La versione integrale è uscita su
Una città n° 152, dic./gen. 2008)
la paura di non farcela a guarire,
il tragitto della cura come la maratona:
uno solo vince, ma nessuno perde
per prevenire il rischio clinico,
una “cura” della comunicazione
è importantissima