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Andrea Martoni è stato Direttore dell’unità
operativa di Oncologia Medica presso il Po-
liclinico S. Orsola-Malpighi a Bologna.
Quello della comunicazione fra pazien-
te e medico, in particolare in ospedale,
resta un problema o le cose sono cam-
biate?
Quando ci sono di mezzo malattie gravi,
all’inizio almeno, il medico si trova in dif-
ficoltà perché le conseguenze sullo stato
psichico, emotivo, di una malattia grave,
sono enormi, fino al punto da condizionare
le stesse decisioni che il medico prende. Non
solo, un paziente può anche rifiutare di fare
quello che il medico dice. Di fronte a una
malattia grave, che mina profondamente la
persona, che mette a repentaglio la vita, o
anche solo alla paura di una tale malattia,
il medico non può non tener conto dei senti-
menti perché la sua relazione col paziente
dipenderà da questo e così le decisioni che
verranno prese.
Allo stato attuale succede che se uno ha già
una sua propensione a stabilire delle re-
lazioni, una sua sensibilità, che casomai è
quello che l’ha spinto a scegliere medicina
(e che appunto non gli viene dagli studi di
medicina), bene, perché questo aiuta. Però
la maggioranza di chi si iscrive a medicina
non parte con questo background e l’inse-
gnamento non ne tiene molto conto. Quindi,
alla fine, chi ce l’ha già di suo riesce a soppe-
rire, chi non ce l’ha...
Ovviamente non esiste un medico che non
abbia avuto un paziente con cui non ha le-
gato. Questo fa parte della vita. Però è in-
dubbio che tutti vorremmo avere a che fare
con un medico che ha più facilità a comuni-
care, che ha meno problemi relazionali, che
è capace di prendere in carico anche aspetti
della vita del paziente che non siano stretta-
mente professionali.
La necessità di efficienza dell’ospedale
va contro questo aspetto di “persona-
lizzazione”, se così si può dire....
Queste malattie gravi, in particolare il tu-
more, vengono curate in ospedale. Le tera-
pie diventano sempre più forti, sempre più
efficaci, e anche più complesse. Farle bene
tecnicamente, farle in maniera corretta, si-
gnifica inevitabilmente accentuare sempre
di più l’aspetto organizzativo, per cui, ad
esempio, un day hospital di oncologia, dove
si fanno le chemioterapie, assomiglia sem-
pre di più a una catena di montaggio, perché
non è un atto solo, è un processo dove inter-
vengono molti operatori e le fasi da concate-
nare sono diverse.
Non lo dico in maniera negativa: è giusto
fare così. Solo che sarebbe altrettanto giusto
avere degli spazi, dei momenti in cui ci si
ferma, ci si confronta, si dice qualche parola,
si ha uno scambio tra le persone, anche a
partire da ruoli diversi, uno è un professio-
nista, l’altro è “il cliente”, se vogliamo usa-
re questa parola. Purtroppo, questo tempo,
queste possibilità stanno sempre più dimi-
nuendo, pur nella consapevolezza, ormai
abbastanza acquisita, dell’importanza del
rapporto umano. Anche il medico sensibile
si accorge di avere sempre meno tempo da
dedicare a questo aspetto.
Dall’altra parte il cliente, il paziente, ha un
crescente bisogno di avere più tempo per-
ché conosce sempre di più quello che gli sta
succedendo, quindi, giustamente, è pieno di
dubbi e interrogativi.
A questo punto non c’è il rischio che le
risposte se le vada a cercare da solo?
Infatti si arrangia un po’ da solo e cerca delle
strade di informazione che sono pericolosis-
sime: internet, i giornali, la televisione, che
solitamente lanciano messaggi non realisti-
ci. Colpa del giornalista che intervista, ma
anche di chi si fa intervistare, perché ormai
esiste la promozione anche della ricerca, la
promozione dello scienziato, la promozione
del libero professionista.
Le informazioni raramente sono corrette,
quasi sempre vengono distorte. Se pensiamo
poi che chi ha la malattia è portato lui stes-
so a distorcere le notizie, se l’informazione è
minimamente ambigua, nel senso di creare
delle attese, ecco che il danno è fatto.
Qual è il modo per instaurare un rap-
porto di fiducia con il malato?
La trasparenza. La mia esperienza è questa:
più sei trasparente, nei dubbi, nelle certez-
ze, più sei capito e vieni compreso, più vieni
considerato meritevole di fiducia. Questo è
fondamentale, perché il rapporto medico-
paziente è un rapporto di fiducia. La fiducia
la si conquista in tanti modi, ma certamente
bisogna essere chiari, trasparenti, non am-
bigui, e veramente interessati alla persona
che hai di fronte. Certo, se sei oberato dall’o-
rario, dai turni, ecco, rischi di perdere tutto
questo, che è anche un’opportunità.
Del resto a essere pagate sono le presta-
zioni, non certo questi tempi “vuoti”...
Le parole chiave sono “efficienza”, “effica-
cia”. Se poi parli con i direttori generali, al-
meno quelli che io ho conosciuto, che sono
dei buoni dirigenti, ti diranno sicuramente:
“Ma no, non è vero, non c’è solo questo...”.
Casomai loro apprezzano l’impegno anche
sul versante comunicativo, però, alla fine,
se gli vai a dire che hai bisogno di più per-
sone per dedicare più tempo al paziente, ti
risponderanno immancabilmente di no. Per
un problema di bilancio. Quindi a parole il
problema viene compreso, ma nei fatti...
D’altra parte è chiaro che l’amministratore
deve occuparsi degli aspetti economici, quin-
di l’aziendalizzazione deriva dalla necessità
di essere più efficienti, che è una necessità
ineludibile. Abbiamo uno Stato che investe
nella Sanità una quota del proprio Pil più
bassa delle altre nazioni, seppur di poco, ma
in presenza di uno spreco enorme. Se poi ag-
giungiamo a questo che il sistema sanitario
da Firenze in su funziona abbastanza bene,
e da Firenze in giù funziona abbastanza
male…
Capita ancora che l’interessato non
venga informato della gravità della
cosa e venga informata la famiglia.
Questo non è legale. Punto. Se capita qual-
cosa, se c’è un procedimento penale per
qualche motivo, la prima cosa che il giudi-
ce va a cercare è il consenso del paziente di
fronte a un atto sanitario, se c’è o non c’è. E
se anche c’è, ma il paziente dice: “Io non ave-
vo capito che lì fosse scritto così”, il giudice
può dar torto al medico.
Allora, rispetto al consenso, c’è un aspetto
legale che a me interessa, naturalmente,
ma un po’ meno dell’altro, che sta nella so-
stanza delle cose, cioè nella relazione e nel-
la comunicazione fra medico e paziente, in
particolare nel nostro campo dell’oncologia.
Qui, a fronte di una diagnosi molto seria, io
ormai sono sicuro che il 90% delle persone
che si presentano e che hanno avuto o hanno
un tumore, hanno una buona informazione
sulla loro diagnosi, anche sul grado di gravi-
tà. Sulla diagnosi, direi che non c’è più alcun
problema. Il consenso informato ormai è un
atto dovuto, che vale per tutte le indagini
diagnostiche e per le varie terapie.
Oggi tutte le cartelle contengono almeno
una pagina dove c’è scritto che il pazien-
te è informato. Non è solo un atto forma-
le, perché più che il foglio di carta conta il
colloquio, che viene gestito dal medico, se-
condo quella sensibilità e quelle capacità
comunicative che ha o che dovrebbe avere
e di cui dicevo prima. E qui è chiaro che le
parole sono molto importanti. Una sfumatu-
ra nell’uso delle parole, pur dicendo la stes-
sa cosa, può cambiare molto. Ci sono delle
persone con cui si può parlare chiaramente
di tumore, con altre si possono usare delle
parole magari più tecniche, che possono ri-
sultare meno traumatiche. Si possono adot-
tare delle perifrasi: si può dire che le cellule
crescono, che vanno in giro (che è poi una
descrizione esatta di ciò che accade), pren-
dono le vie linfatiche, senza dire casomai la
parola “metastasi”. Al che spesso è il pazien-
te che alla fine dice: “Ma sono metastasi?”,
“Eh, sì, sono metastasi...”.
Capita ancora una situazione tipica, che per
un verso fa sorridere. Qui da noi vengono
molte persone anche dal Sud e nel Sud vige
ancora quello che era il comportamento dei
parenti venti o trent’anni fa da noi: “Mi rac-
comando, eh, lui non sa niente, poi vengo io
a parlare con lei...”. Al che, più di una vol-
Parlare fa bene
La massima trasparenza, la capacità di comunicare, condizione del rapporto di fiducia fra medico e paziente. Un ospedale
che, inevitabilmente, è sempre più organizzato come una fabbrica e un’esigenza, in gran parte insoddisfatta, di “personaliz-
zazione”. Intervista ad Andrea Martoni.
più sei trasparente, nei dubbi,
nelle certezze, più sei capito e vieni
considerato meritevole di fiducia