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dal marmo... È a Carrara che avrei dovuto
andare, per conoscere, intervistare, annota-
re, sbobinare.
C’è un primario mi dicono, c’è Cantore (Mau-
rizio) e il suo vice Mambrini (Andrea), che
sono la corrente a
due e venti
che illumina
quel quarto piano con vista mare. Il tutto,
da avvicinare, per farne una storia.
Grazie alla rivoluzione relazionale di Can-
tore e Mambrini e degli altri colleghi, rivo-
luzione che comprende la musica e l’opera
dei Donatori di Musica (perché la musica è
il grimaldello che spacca i chiavistelli della
Bastiglia, in questa rivoluzione), in oncolo-
gia da qualche parte è stato certo nascosto
un “acceleratore di emotività”, un intensifi-
catore di passioni, meraviglioso e parimen-
ti faticoso, perché non prevede distrazioni.
Qui la penna che disegna la vita, del pazien-
te ma anche dei medici, degli operatori, dei
familiari e dei volontari, preme sul foglio
lasciando una traccia forte, netta, inequi-
vocabile d’inchiostro e la vita acquista una
nuova coscienza di sé: non sfugge, anzi si
sente il suo misterioso, miracoloso procede-
re, istante dopo istante.
Al quarto piano dell’ospedale di Carrara,
capita di ascoltare una volontaria-paziente
dire: “Quando morirò mio marito è già d’ac-
cordo con Maurizio, andranno insieme a fe-
steggiare, col vestito elegante, usciranno a
mangiare una pizza”
.
E per com’era detta,
era una frase onesta e gioiosa, senza retro-
gusti, senza aggressività, senza la masche-
rata volontà d’esorcizzare alcunché.
Qui che il tempo si accorcia, e la tentazione
è guardare indietro e difendersi dalla fine
più o meno imminente negando il futuro,
qui sembra misteriosamente che sia -per
ciascuno- una startup rampante per una
nuova percezione dell’esistenza.
A volte, l’energia che si respira in oncologia,
tra le macchinette del caffè e le foto appese,
i pianoforti e la vista mare e la finta neve di
marmo, si fa irrespirabile. Perché, a raccon-
tarla con una banalità a effetto (ma vera),
in quella corsia ci si ammala perdutamente
della vita: un amore travolgente, letterario,
di quelli d’una volta, dove è l’intensità che
conta e non l’inutile privilegio di molti calen-
dari da trascorrere insieme, distrattamente.
Qui una stretta di mano è una promessa, un
bacio sulla guancia significa che si mette in
atto uno scambio chimico, di quelli che fan
saltare le provette.
Ecco perché, dopo il primo bacio sulla guan-
cia, non ho più potuto, e mi son dovuto aste-
nere, dall’offrire questo casto saluto alla
volontaria psicologa che in camice bianco
sorride e ascolta gli ospiti ricoverati in re-
parto.
Giorgio De Martino, giornalista e critico musicale,
sta lavorando alla pubblicazione di un libro divulga-
tivo che racconti l’esperienza dei Donatori di Musica,
frutto di un’idea e di una sfida lanciata dai fratelli
Zecchini, editori di “Musica”, Per questo quaderno ci
ha gentilmente messo a disposizione un breve estrat-
to,
tratto dal primo capitolo del volume.
Uno: questa storia vuole poche parole.
Due: le parole sono medicine, dunque, po-
tenzialmente, veleno.
Tre: la documentazione abbonda, le testimo-
nianze pure, tante morti, tante vite... Farne
un reportage equivarrebbe a fallire.
Quattro: qui la prosa è perdente, gli aggetti-
vi appestano, solo la poesia, senza vergogna,
avrebbe la forza di dire ciò che col resto suo-
nerebbe maldestro: in rima persino, senza
vergogna, anche se per certo è strada non
percorribile, per ovvi motivi.
Cinque: la retorica in questa storia è più
d’un rischio, è una disastrosa eventualità,
una criminale deriva (ecco: “criminale de-
riva”, il puzzo di retorica già fa capolino),
ed è un attimo svoltarcisi dentro bel bello;
un barocchismo può far vomitare più della
“chemio”.
Sei: sono attratto dall’opzione di scorta e la
tengo idealmente davanti al foglio elettroni-
co bianco: quella che nessuno è indispensabi-
le, che improrogabili impegni, che magari il
prossimo anno, che perdio lasciatemi in pace.
Suona il telefono rispondo sdraiato, ignaro
della tegola che mentre squilla s’è già stac-
cata ed è in volo, e io sotto. È l’amico editore,
e col vivavoce c’è pure il fratello più grande,
parimenti editore e amico. Fanno un nome
che ho letto più volte, sulla rivista che fan-
no, la stessa alla quale collaboro da una doz-
zina di anni.
Il nome è quello di Gian Andrea Lodovici,
morto di cancro nel 2009. E riassumono in
qualche minuto l’avventura d’un uomo che
è vissuto di musica fino all’ultimo istante.
E l’avventura inizia, nella sua parte che ci
riguarda, quando sembra finita. Perché sfi-
nito -svuotato, sfibrato- sulla poltroncina
dello studio del primario di Oncologia, al
quarto piano dell’ospedale civico di Carrara,
quest’uomo s’innamora della strana allegra,
euforica, eccentrica poesia per la vita che
scorre in reparto e di ciò che chiede avida-
mente e giustamente questo reparto, musi-
ca di qualità, arte.
Un luogo dove ogni paziente è un compagno
d’avventura, dove in ogni manciata di letti
c’era il desiderio di un pianoforte (e oggi ce ne
sono ben tre), dove le pareti trasudano musi-
ca e ovunque si posino gli occhi ci sono porte
aperte e colori e fotografie in bianco e nero,
dove i pigiami son bestie rare e all’inverso è
una staffetta continua di sorrisi e di indaf-
faratissimi amici. Dove le barriere le vedi
perché cadono, e nuove emozioni, relazioni,
rivoluzioni, quotidianamente fioriscono.
Un posto d’altronde, dove si pretende di cu-
rare cosachessia, o è “casa” o è l’inferno: e
oncologia, persino nel nome, già puzza di
zolfo. Non a Carrara, però. Non a Bolzano,
non a Brescia, Saronno, Sondrio, Vicenza.
Ma è da Carrara, dove l’idea era semenza
e Lodovici la terra che l’ha germogliata, a
Carrara, “casa” casa seppure amara, langui-
da, casa amata di chi l’ha percorsa, casa di
vetro con le macchinette per il caffè e la vi-
sta sul mare lontano, sotto le cime innevate
Giorgio De Martino
Per una storia dei Donatori di Musica
La musica innamorata
Alcuni mesi fa, una zia di mio padre,
novantenne e ammalata gravemente
di tumore, espresse il desiderio di
vedermi e di sentirmi suonare. Amava
tanto la musica, il pianoforte, e lei era
poco più che moribonda e trafitta da
dolori indicibili. Eppure voleva ascoltare
musica, ma non una musica qualsiasi,
la musica suonata da me. Non ho
compreso il messaggio d’amore che mi
stava porgendo. Mi sono recato nella sua
villetta e ho suonato il suo pianoforte.
Uno, due, tre brani. Ma invece di stare
in quella relazione d’amore, sapete dove
scappavano i miei pensieri? Mi ritrovavo
a pensare che quello strumento era un
orrore. Tutto scordato, con i tasti che
spesso non tornavano più neanche al
loro posto, insomma, una schifezza di
strumento, immaginate l’esecuzione. E
quasi mi vergognavo di suonare. E non
ho pensato che lei, in quel momento
supremo della sua vita, in quegli ultimi
suoi giorni, voleva ascoltare una musica
innamorata, non una musica perfetta.
che forse io, con le mie paure inutili
da musicista perbenista non ho saputo
donarle. In quel momento il mio cuore
non era certamente pervaso da quello
sguardo innamorato che il mio amico
Cantore mi aveva trasmesso. Insomma,
in me il sentimento dell’istituzione e del
palcoscenico, le smanie di perfezione
avevano inquinato quel “qualcosa di
bello” al quale ero stato chiamato. Ora
ho capito che non ho amato abbastanza
quell’attimo di vita.
(Stefano)
Solo un lampo
Caro Maurizio, l’esperienza di ieri è stata
davvero emozionante. Concordiamo sul
fatto che è superfluo ringraziare, da ambo
le parti, ma credo sia invece importante
trasmetterci con forza l’entusiasmo di
condividere un così grande progetto.
L’obiettivo ci era chiaro -portare la
gioia della musica- ma la sorpresa è
stata comunque grande. Sorpresa di
scoprire come un ospedale, sempre
pensato come luogo della sofferenza,
possa farsi anche luogo dell’accoglienza.
Sorpresa di scoprire che i medici non
sono necessariamente dall’altra parte,
ma possono essere da questa parte.
Sorpresa di scoprire che le persone
sofferenti riescono non soltanto ad
ascoltare la musica, ma attraverso questa
anche a ricompattare il proprio corpo
con il proprio animo. Sorpresa, per noi
esecutori, di scoprire noi stessi non tanto
come semplici vettori di comunicazione,
ma come possibili disvelatori di trame
interiori, e da ultimo come amici.
L’ultima sorpresa è proprio questa: come
si possa creare, sulla base di un incontro,
un’immediata atmosfera di amicizia. Per
voi che “restate sul campo” le relazioni si
prolungano e si arricchiscono; ma anche
noi, che rappresentiamo solo un “lampo”,
abbiamo l’occasione di partecipare a
questo grande scambio di umanità.
(Mara)