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linguaggio molto offensivo, non degno di un
musulmano.
Ha avuto contatti con il suo torturato-
re dopo la pubblicazione del libro?
Ogni suo contatto con me sarebbe un ricono-
scimento del fatto che è stato un torturatore.
Scrivere un libro sugli anni passati in
carcere e sulle torture subite non sarà
stato facile…
è anche un modo per liberarsi di quel passa-
to. Non rimuovere, ma superare. Ho scelto
di scrivere le mie memorie dal carcere sotto
forma di lettere al mio torturatore perché il
detenuto per ogni sua richiesta, come com-
prare un dentifricio allo spaccio del carcere
o per recarsi in infermeria, deve rivolgersi
a lui e non al giudice o al direttore del pe-
nitenziario. Mentre scrivevo il libro ho im-
maginato di essere ancora nella mia cella e
allora mi sono rivolto all’unico uomo a cui
potevo rivolgermi.
Lei ha vissuto nelle carceri di due regi-
mi. Qual è la differenza sostanziale tra
il carcere e gli interrogatori nella Re-
pubblica Islamica e quello precedente,
ai tempi della monarchia Pahlavi?
Ai tempi dello Scià, la detenzione e gli in-
terrogatori seguivano una prassi legale, con
delle leggi spesso ingiuste, ma che esisteva-
no. I servizi segreti avevano dei nemici che
dovevano identificare, arrestare, combatte-
re e annientare. Ti arrestavano, ti tortura-
vano fino a quando potevano ottenere infor-
mazioni utili.
Il loro scopo era quello di identificare i dissi-
denti; una volta ottenute queste informazio-
ni, venivi processato e condannato. Anche
la condanna era chiara. Se eri accusato di
propaganda contro la monarchia e il gover-
no, la pena era da sei mesi a tre anni. Se
appartenevi a un’organizzazione che condu-
ceva una battaglia politica contro il regime,
la condanna variava da uno a tre anni di re-
clusione, mentre se eri membro di un grup-
po armato potevi essere condannato anche
alla pena capitale, ma bastava il pentimen-
to per vederti ridurre la condanna a morte a
15 anni, per uscire poi dal carcere dopo tre
o cinque anni.
All’epoca, i tuoi torturatori, che erano dei
semplici impiegati del terrore e non erano
lì per un’ideologia o un credo, si accontenta-
vano anche del 20% delle informazioni che
potevi avere. Quel tanto necessario per giu-
stificare lo stipendio.
Durante gli interrogatori nelle carceri della
Repubblica Islamica non si accontentano di
ottenere informazioni dai dissidenti politici.
A un torturatore ideologizzato non bastano
le informazioni. Anzi, direi che ottenere le
informazioni non è l’obiettivo principale.
Loro vogliono distruggerti come persona,
vogliono che tu rinneghi il tuo credo, che tu
ammetta di essere politicamente e moral-
mente corrotto e soprattutto che tu ricono-
sca che loro e il sistema sono il giusto.
In Iran le pressioni sulle famiglie dei de-
tenuti politici sono un altro dei proble-
mi con i quali bisogna fare i conti. Sua
moglie come ha vissuto questi anni?
Sono stati scritti molti libri sulla vita in car-
cere, ma mai uno su chi subisce questo car-
cere senza finire dentro.
Mia moglie pubblicherà presto una versione
aggiornata delle lettere che mi ha mandato
negli anni in cui ero recluso in una cella, pri-
ma e dopo la rivoluzione. Le sue sofferenze
non sono state da meno, anche se lei godeva
di un’apparente libertà.
Il primo direttore del tristemente noto
carcere di Evin negli anni successivi
alla rivoluzione islamica, l’ayatollah
Asadollah Lajevardi, ha definito la pri-
gione una grande università…
Lui ha anche definito le celle d’isolamento
“camere singole”.
A Evin avevamo un insegnante di “morale
islamica” che doveva portarci sulla retta via
e ci impartiva lezioni di fede. Qualche anno
dopo è finito lui stesso in carcere per aver
violentato una donna. Certo, si imparano
anche delle cose, come la solidarietà e la
convivenza.
Qualcuno ha definito l’esilio un’altra
forma di privazione delle libertà?
è una gabbia anche l’esilio, tuttavia non pa-
ragonabile con il carcere nella Repubblica
Islamica.
(A.R.)
62 anni, giornalista. è stato recluso per due
anni durante la dinastia Pahlavi e altri sei
anni sotto la Repubblica Islamica. Nel 2003
si è trasferito a Parigi, dove vive con la mo-
glie, la giornalista Noushabeh Amiri. Il suo
libro sugli anni trascorsi in carcere,
Letters
to my torturer (Lettere al mio torturatore)
,
è uscito in lingua olandese e ha ottenuto il
premio internazionale Human Rights Book
Award austriaco. La versione araba, pronta
da tempo, non è andata nelle librerie per le
pressioni esercitate sull’editore libanese da
parte degli Hezbollah.
Chi era il suo torturatore al quale si è ri-
volto con un libro sotto forma di lettera?
Agli interrogatori si presentava come fratello
Hamid e non sapevo chi fosse, fino a quando,
qualche anno fa, vidi la sua foto su un giorna-
le e seppi che era stato nominato ambasciato-
re della Repubblica Islamica nel Tajikistan.
Poi seppi che era stato anche vice Ministro
dell’Intelligence. Oggi, Naser Sarmadi Parsi,
il suo vero nome, è un grande uomo d’affari
con molti interessi anche in Cina.
Chi era, nei primi anni dopo la vittoria
della rivoluzione islamica, a interroga-
re i dissidenti politici?
Le carceri erano affollate non tanto dagli
esponenti del vecchio regime bensì da chi
aveva partecipato alla rivoluzione. Chi pro-
veniva dall’ala religiosa era rinchiuso allora
nel famoso carcere di Evin, controllato dai
Comitati della Rivoluzione.
Erano giovani che facevano parte dell’orga-
nizzazione dei Mujahedin del Popolo. Molti
di loro sono finiti davanti ai plotoni di ese-
cuzione, alcuni sono ancora in carcere. Noi,
che provenivamo dalle organizzazioni di
sinistra, eravamo detenuti in un altro cen-
tro di detenzione gestito dal nucleo che poi
divenne il Ministero dell’Intelligence. A con-
durre gli interrogatori erano soprattutto al-
cuni giovani “rubati” alle università. Alcuni
di loro, come Abbas Abdi o Said Hajjarian,
divennero più tardi esponenti di punta del
riformismo e stretti collaboratori del presi-
dente Mohammad Khatami. Il mio tortura-
tore spesso mi diceva che per colpa di per-
sone come me era stato costretto a lasciare
l’università per venire a salvare la rivoluzio-
ne islamica dagli attacchi delle forze contro
rivoluzionarie. Erano giovani islamici che
credevano in quello che facevano.
Ancora oggi è così?
Oggi, chi interroga i dissidenti, gli studenti,
i giornalisti o le femministe, non crede più
in niente e fa il torturatore di professione.
Un rifugiato politico in Francia, che di re-
cente è stato liberato dopo un periodo di de-
tenzione, mi raccontava che il suo torturato-
re si rivolgeva alle mogli dei detenuti con un
Houshang Asadi
Prigioniero di due regimi
Ad ogni respiro un po’ della mia vita come una goccia d’oro
stilla nelle fauci di questa palude della vita, che tutto trangugia.
Il nefasto gozzo suo insaziabile ogni momento mi chiede un boccone.
È rimasta spalancata, eterna quella bocca come caverna.
Io, ogni singolo momento della mia vita faccio una carogna
e gliela getto come un pesce:
ma, si sazierà mai questo vecchio airone?
Di nuovo dice: “Un altro boccone!”.
Eccoti il becco più spaventoso!
(Mehdi Akhavan Saless)
oggi, chi interroga i dissidenti, gli
studenti, i giornalisti o le femministe
fa il torturatore di professione
loro vogliono distruggerti
come persona, vogliono che tu
rinneghi il tuo credo