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L’Italia, solo di recente ha deciso di acco-
gliere i profughi politici iraniani. Per anni
gli iraniani che si rifugiavano in Italia pote-
vano solo contare sulla protezione dell’Alto
Commissariato per i Rifugiati Politici delle
Nazioni Unite. Anche gli iraniani preferi-
vano i paesi scandinavi o la Germania e la
Gran Bretagna, dove l’assistenza ai richie-
denti asilo era di gran lunga superiore che
in Italia. Da qualche anno però anche l’Ita-
lia è diventata una meta per chi fugge dalla
Repubblica Islamica e cerca di trovare un
rifugio all’estero, soprattutto in Europa. Le
storie di questi rifugiati sono sempre com-
moventi e spesso rispecchiano vari aspetti
della difficile situazione del paese dal quale
sono scappati per mettere in salvo la loro
vita, oppure per riprendersi quella libertà
di cui erano stati privati.
A Bressanone vive Farshad Dulabi, un
giornalista curdo iraniano. Farshad è nato
a Sanandaj, considerata la capitale ammi-
nistrativa del Kurdistan iraniano. “Essere
curdi nella Repubblica Islamica -racconta
Farshad- significa essere soggetti a una
doppia discriminazione, soffri di tutte le
privazioni e le angherie comuni a chiun-
que viva in questo paese e in più la violen-
za quotidiana esercitata nel Kurdistan fin
dalla vittoria della rivoluzione islamica”.
“è difficile essere curdi e non essere trasci-
nati nella politica, il regime ti costringe a
fare delle scelte politiche precise”, aggiunge
Farshad, che dovette abbandonare il paese
illegalmente nel 2006.
Farshad fu arrestato per la prima volta nel
1996 in quanto militante del Partito De-
mocratico del Kurdistan Iraniano (Pdki). Il
Pdki è stato dichiarato fuorilegge, come al-
tri partiti politici curdi, quasi subito dopo la
nascita della Repubblica Islamica. La prima
sentenza del tribunale condanna Farshad a
due anni di reclusione, ma nel processo di
riesame è stato riconosciuto come
moha-
reb
(nemico di Allah) e condannato a mor-
te. “Dopo la lettura della sentenza- ricorda
Farshad- protestai dicendo che non avevo
avuto un legale e che nessuno aveva mai
sentito le mie ragioni e la mia versione. La
risposta fu che un tale Shahram Goruhi, se-
duto in un angolo dell’aula, era il mio difen-
sore d’ufficio e aveva avuto accesso al caso e
inoltrato in precedenza le sue osservazioni”.
Farshad fa ricorso al Tribunale Supremo e
viene convocato nuovamente dal Giudice. “Il
nuovo Giudice -racconta- mi disse che il Tri-
bunale Supremo aveva confermato l’accusa
di
mohareb
, ma aveva lasciato a lui la scelta
tra tre pene da infliggere: la pena di morte,
il taglio dalla mano destra e del piede sini-
stro, oppure il confino. Il Giudice mi disse
che ero troppo giovane e che aveva deciso di
darmi la possibilità di redimermi”. Farshad
fu condannato a cinque anni di confino e
nove mesi di carcere.
“Al mio rientro a Sanandaj -aggiunge- dopo
5 anni passati al confino nella città di Ga-
chsaran, decisi di sposarmi e svolgere un’at-
tività politica in seno ad alcune organiz-
zazioni non governative che si occupavano
della lotta alla droga o promuovevano la
parità dei diritti tra i sessi”. Ma nemme-
no questa militanza non direttamente le-
gata ai partiti politici fu sopportata dalle
autorità della Repubblica Islamica. “Una
mattina di un giorno festivo mi trovavo in
gita in montagna con alcuni amici -ricorda
Farshad- quando arrivò mio fratello dicendo
che agenti delle forze di sicurezza avevano
fatto irruzione a casa mia e non trovandomi
avevano portato via libri, appunti e mano-
scritti. Decisi di non rientrare più in casa.
Dopo 10 giorni nascosti da un amico, io e
mia moglie abbiamo passato il confine per
rifugiarci nel Kurdistan iracheno”.
Farshad rimane per oltre quattro anni nel
Kurdistan iracheno, dove inizia a lavorare
come giornalista presso una radio locale. Il
Kurdistan iracheno non è un luogo molto
sicuro per i rifugiati iraniani. Essendo una
zona di confine, le infiltrazioni degli agenti
iraniani è continua e non sono pochi i rifu-
giati e i dissidenti politici che vengono ra-
piti e trasferiti in Iran. Molti rifugiati, non
appena la loro presenza e la loro attività
nel Kurdistan iracheno diventa evidente,
devono entrare anche qui in semi clandesti-
nità, oppure trasferirsi altrove. Lo stesso è
successo a Farshad, che ha deciso lasciare il
Kurdistan iracheno e cercare rifugio altrove.
“Illegalmente io e mia moglie -racconta- ab-
biamo attraversato il confine con la Turchia
e poi, con uno dei famosi barconi organizza-
ti dai trafficanti di esseri umani, abbiamo
raggiunto le coste calabresi dopo sei giorni
di viaggio nelle acque del Mediterraneo sti-
pati come bestie”. “Sulla barca -continua
Farshad- eravamo in 120 e, quando siamo
sbarcati, la polizia ci ha sistemati in una
chiesa, fornendoci cibo e assistenza medica,
ma dopo quattro giorni, avvenuto il ricono-
scimento, ci ha dato un foglio e ci ha detto
che eravamo liberi di andare”. “Molti di noi
-aggiunge- non sapevamo come e dove anda-
re, tanti volevano recarsi nei paesi scandi-
navi, dove i rifugiati godono di un’assisten-
za maggiore. Noi volevamo raggiungere la
Gran Bretagna, siamo passati
illegalmente in Francia, ma la
polizia britannica ci ha scoperti
e rispedito indietro. La polizia
francese a sua volta ci ha mes-
si su un volo con destinazione
Roma, in quanto eravamo sbar-
cati in Italia e in questo paese
dovevamo richiedere l’asilo po-
litico”. Farshad e la moglie dopo
11 mesi hanno ottenuto l’asilo
politico in Italia e hanno deciso
di stabilirsi a Bressanone. In
Italia sono giunti, dopo le ele-
zioni presidenziali del 2009 e le
manifestazioni post elettorali,
un gruppo di giornalisti che si
sono stabiliti a Roma, Firenze
e Torino. Il loro percorso è stato
meno avventuroso. Loro han-
no ottenuto a Teheran visti di
emergenza rilasciati dall’am-
basciata italiana a Teheran, in
seguito alla decisione dell’allo-
ra Ministro degli Esteri Franco
Frattini di accogliere qualche
decina di attivisti politici e
giornalisti che rischiavano di
finire in carcere.
(A.R.)
Rifugiati iraniani in Italia