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Della malattia io ho sempre voluto sapere
tutto e ho fatto della mia reazione razionale
uno dei punti di forza. Pur essendo la situa-
zione gravissima, ho avuto l’enorme fortuna
di accorgermene in tempo. Perché se non ci
fosse stata quella caduta, beh, anche dieci
giorni dopo non sarebbe stata la stessa cosa.
Della malattia poi ho sempre parlato e con-
tinuo a parlarne. è un po’ come coi reduci
che hanno sempre voglia di parlare della
guerra. Forse perché sono momenti estremi
in cui vedi la morte, e però c’è anche molto
la vita. Vita e morte si intrecciano in una
maniera forse irripetibile, quindi c’è sempre
un ritorno a questa esperienza, cosa che per
gli altri è poco comprensibile.
Alla fine dell’estate mi sentivo di ricomincia-
re a lavorare. La chemioterapia, se incassata
bene, ti permette di riprenderti abbastanza
velocemente, tanto più se sei giovane. Io poi
morivo dalla voglia di fare qualcosa, di usci-
re… Insomma, ho pensato: “Piglio, ci vado,
poi vedrò...”. Tanto era visibile a tutti la mia
condizione, a parte il fatto che ogni forma di
peluria era scomparsa (e pure questo è pe-
ricoloso, perché vengono meno alcune prote-
zioni), anche il colorito era giallognolo, per
cui se non fossi entrato subito a regime la
gente avrebbe capito. Comunque piano pia-
no mi sono rimesso in pista.
Purtroppo la malattia mi ha lasciato dei
segni. Mi si è molto accentuata l’attenzione
verso me stesso, non nel senso narcisisti-
co, però, come dire, non vivo molto bene le
malattie. Purtroppo questo è un paradosso
incredibile...
C’è quest’angoscia da cui non riesco a libe-
rarmi. Faccio una vita “normale”, però, c’è
questa cosa che sto molto attento a me stes-
so... In che senso? Mah, per esempio, io sono
un po’ allergico, ecco, basta un mal di gola
o qualsiasi cosa provochi un po’ di difficoltà
respiratorie per farmi scattare una reazione
emotiva di grande preoccupazione.
Non è una cosa proprio patologica, a livello
di ipocondria, è specifico di alcuni disturbi,
soprattutto respiratori. E ovviamente coin-
volge anche le persone che mi sono care, in
primis i miei figli. Io provo a controllarmi,
però faccio in fretta a preoccuparmi. D’altra
parte, considera anche che rischiavo la ste-
rilità. Oggi ho due figli. Il primo, puoi imma-
ginare, è stata un’esperienza straordinaria
una cosa fortissima, anche perché è stato il
segno che in qualche modo avevo reagito,
che potevo addirittura dare la vita.
Certo, è bizzarro. Io pensavo sarebbe acca-
duto il contrario, cioè che, passata quella,
nulla più mi avrebbe toccato e invece... Per
certi versi è vero, perché l’energia che sento,
e anche la capacità di sdrammatizzare, sono
notevoli, ma non su di me o sui miei cari...
Mia moglie fa quello che può. Fortunata-
mente lei ha un altro carattere.
Comunque mi è stato spiegato che questa
mia reazione ha una sua razionalità.
Me lo spiegò pure il dottor Vitali, che è anche
psicanalista, disse: “Beh, quest’ansia super-
ficiale è un modo per distogliere l’attenzione
da un’ansia profonda”. È un meccanismo
psichico di difesa, che può essere fastidioso,
ma in realtà mi difende dal rivivere l’evento
in modo ben più angosciante.
Era da tempo che coltivavo l’idea di scrivere
qualcosa su quanto mi era capitato, perché
rimanesse, per me. Ci avevo anche provato,
in prosa, in forma di diario, ricordi, fram-
menti, però mi sembrava sempre o di esa-
gerare o di sminuire e non mi andava mai
bene quello che veniva fuori. Poi, sempre a
proposito di malattie, mi capita di prendere
un virus allo stomaco, di quelli tremendi che
non riesci a mandar giù niente.
Così sono stato costretto al digiuno. Come
si sa un digiuno prolungato crea uno stato
di grande lucidità. Insomma, era da qualche
giorno che non mangiavo e fatto sta che una
mattina, ero a casa da lavorare, mi metto
al computer e comincio a scrivere, e scrivo
scrivo… i ricordi uscivano uno dopo l’altro.
In due o tre giorni ho scritto novanta poe-
sie, in forma di diario, che partono dal pri-
mo momento in cui mi è stata annunciata
la malattia. Erano tutte cose che avevo ben
presenti, ma era riemerso tutto secondo una
concatenazione ben precisa, un percorso.
Ho così vagheggiato l’idea di farne qualche
copia per gli amici e anche per ringraziare
i medici. Le ho fatte leggere anche al dot-
tor Martoni, il primario, che dopo qualche
giorno mi ha chiamato: “Ascolta, ti va di ve-
nir da me, in ospedale?”. Mi ha detto che a
sua moglie erano piaciute e questo gli aveva
fatto balenare l’idea: “Noi abbiamo un biso-
gno assoluto di entrare in questa questione
della comunicazione medico-paziente. E an-
che di uscire all’esterno…”. Insomma, mi ha
proposto di farne un libro, che inaspettata-
mente ha messo in moto tutta una serie di
iniziative. Intanto si è creato, nell’ospedale,
un luogo di incontro tra pazienti e anche fa-
miliari che è diventato una piccola associa-
zione. Grazie all’azienda sanitaria, che si è
dimostrata molto sensibile, ha visto la luce
qualche numero di una rivista “Se ne parli”,
che è anche il titolo di una delle mie poesie.
Di questo invito a parlare abbiamo fatto un
po’ un manifesto dell’iniziativa.
Il gruppo è venuto fuori spontaneamente,
evidentemente c’era un bisogno diffuso, so-
prattutto di uno scambio tra persone nelle
stesse condizioni, con l’agio di essere tra
pari, perché con le altre figure, per quanto
uno possa essere vicino, è sempre il medico,
è lo psicologo, lo specialista, il prete, il pa-
store evangelico, quello che è…
Oggi le persone si incontrano regolarmente.
Come dicevo, ci sono pazienti e familiari, si
è creata una piccola rete. La reazione del
paziente è decisiva per la sua salvezza. Nes-
suno sa cosa avviene a livello intracellulare,
però, da un raffreddore a un tumore, tutti
dicono che conta molto come reagisci e come
reagisci dipende molto da chi hai accanto:
le amicizie, la famiglia, ecc. Se si è soli si
fa poca strada, temo. Anche per questo i
gruppi sono importanti. Purtroppo, infatti,
per quanto le cose stiano cambiando, que-
sta malattia resta ancora il “brutto male”
(in dialetto bolognese si dice “al brot mel”)
perché è immediatamente legata alla morte.
Questo, per certi versi, resta vero, ma non
con le percentuali di un tempo. Allora la di-
mensione del gruppo aiuta un po’ anche a
sfatarne il mito.
Anche questa idea eccessivamente agoni-
stica, per cui si “vince” contro la malattia.
Non so, a me non ha mai convinto molto.
Tanto più che, grazie alla medicina, si sta
ingrandendo la categoria di chi convive con
questa malattia. Conosco persone malate da
trent’anni. La malattia va e viene e non gua-
risci, e non muori…
(a cura di Barbara Bertoncin.
La versione integrale è uscita su
Una città n° 157, giu./lug. 2008)
c’è quest’angoscia
da cui non riesco a liberarmi. Faccio
una vita “normale”, però...