Massimo La Torre insegna Teoria generale del diritto all’Università di Catanzaro. Ha curato la pubblicazione di Pro e contro il socialismo, di Francesco Saverio Merlino, Rubbettino 2008. Ha scritto, tra l’altro, Messina come metafora e luogo idealtipico della politica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000.

Tu insegni filosofia del diritto in diversi paesi dell’Europa, hai la tua "base” esistenziale ed accademica tra Messina e Catanzaro e nella cultura anarchica italiana il tuo orizzonte ideale e formativo: come vivi il 150°?
Se mi avessero domandato trent’anni fa se sarei arrivato a caldeggiare la festa dell’Unità d’Italia, ci sarei rimasto male. Pensavo che nell’Unità, per come si era fatta, ci fossero più cose cattive che buone. Dunque ben poco da festeggiare. L’Unità d’Italia invero fu fatta male, fu fatta dall’alto in buona sostanza, e con i famosi "plebisciti”, una pratica annessionistica si può anche dire. Il dato triste è che l’Unità si fece secondo il modello "piemontese”, monarchico e centralista del 1859-1860, e non attraverso il modello repubblicano e popolare del 1848-1849. È quest’ultimo il momento più nobile ed avanzato del risorgimento italiano, e fu sconfitto. Le teste più intelligenti e i cuori più generosi sono quelli di coloro che animano le rivoluzioni del Quarantotto: Cattaneo, Manin, Pisacane e lo stesso Mazzini. Nel 1859 ci fu una guerra tra Stati (col decisivo intervento francese) e nel 1860 l’avventura garibaldina. La quale fu anch’essa un’epopea di popolo (mio bisnonno lasciò casa e bottega per accorrere tra i Mille di Garibaldi). E fu un’avventura, almeno in Sicilia, sostenuta da una grande mobilitazione di popolo. Ma rimase… un’avventura. Una tempesta subito sedata, e sedata talvolta dagli stessi garibaldini (com’è il caso, paradigmatico, della sfortunata rivolta di Bronte, repressa stupidamente e ferocemente da Nino Bixio). L’avventura dei Mille impresse anche nell’immaginario della nuova Italia l’idea carismatica del "Duce”, del "Dittatore” -che era quel galantuomo di Garibaldi. Ma quest’idea doveva più tardi dare dei frutti velenosi. Ed entrava in circolo anche la strategia del "colpo di mano”, che sarebbe stata poi scopiazzata nella farsa tragica della "marcia su Roma”.
Nondimeno, nonostante i loro limiti e i loro errori, il Risorgimento e l’Unità significarono il riscatto di un paese che era stato per secoli preda di monarchi e monarchetti, di signori e signorotti, un proliferare di Don Rodrighi con una coroncina in testa, per non parlare del regime oscurantista e tirannico dei Papa-Re; un’Italia, quella, che per il suo degrado civile e morale era divenuta lo zimbello d’Europa. Basta leggere Stendhal e rappresentarsi la Parma che descrive per rendersene conto. Parlando di Roma, Stendhal e gli altri viaggiatori stranieri (Dickens, per esempio) sempre si soffermano, con certo gusto macabro anche, sulla frequenza e gli orrori delle esecuzioni capitali lì in vigore.
Ma col Risorgimento per un momento le cose cambiano. Si afferma un’Italia con la schiena dritta fino ad allora inedita. Si crea finalmente una sfera pubblica, uno spazio civile di deliberazione, seppure dentro ancora un aspro conflitto di classe, che però il repubblicanesimo promette di risolvere e superare. La politica non è più appannaggio di salotti, sacrestie ed alcove; non si fa più a tavola o nel boudoir (che oggi si ripropone in versione "nouveau riche”, o meglio "burino”, nella sala del Bunga Bunga), ma in piazza. E va ricordata la radicale laicità del progetto unitario del Risorgimento -che per questo oggi ancora suscita l’ostilità del cattolicesimo più retrogrado e dei neopapalini atei devoti.
Col Risorgimento e l’Unità è la modernità che arriva nel Bel Paese. Ovviamente non quella di… Marchionne, che coniuga "moderno” con "turbocapitalista”, ma la modernità come possibilità di convivenza secondo diritti e regole sinceramente discusse e condivise. Non è vero che col Risorgimento si cambi tutto per non cambiar nulla secondo la formula di Tomasi di Lampedusa. L’unità del nostro paese, l’Unità d’Italia, col suo orgoglio oggi calpestato, infangato, insudiciato da una classe politica indegna e infame, va allora rivendicata e, sì, anche celebrata e festeggiata. Senza riserve.
Unità d’Italia significa la tradizione mazziniana, il repubblicanesimo: cosa resta?
La tradizione mazziniana è il cuore del Risorgimento. Si potrebbe dire che senza Mazzini l’Unità non ci sarebbe stata. E la dice lunga su ...[continua]

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