Sono dieci anni che Renzo ci ha lasciato e abbiamo pensato di ricordarlo facendolo parlare del Vietnam, paese a cui era particolarmente legato e in cui è stato a più riprese come corrispondente dell’Unità. Sul Vietnam e sulla sua evoluzione postbellica Renzo ha molto riflettuto, riflessione che ha alimentato anche la sua visione più generale sul comunismo, la democrazia e la guerra.

Renzo è andato per la prima volta in Vietnam, ad Hanoi, nell’estate del 1972, a 26 anni. Mi ricordo bene di quell’estate, delle difficoltà di comunicazione con il Vietnam e di quando sentivamo i telegiornali italiani annunciare con tono baldanzoso "nuovi bombardamenti dei B52 su Hanoi”. Ma le lettere di Renzo non erano drammatiche, erano molto ironiche, forse perché scritte alla sorella minore, ma penso soprattutto per via del suo buon carattere e della sua giovinezza. 

Era alle prese con la sua "prima guerra”, e la descriveva come la vedeva, senza quella rappresentazione retorica che avevamo noi della sinistra in occidente.  Per esempio, anche se con un po’ di umorismo, ridimensionava il mito dei combattenti vietnamiti ultradisciplinati e raccontava di come essi vincessero la guerra proprio perché non erano poi così disciplinati.  Raccontava che le sofisticate tecnologie americane calcolavano alla perfezione la posizione che avrebbe avuto la colonna militare all’arrivo del bombardiere, tenendo conto anche delle soste prevedibili. Ma gli americani non riuscivano poi a colpirla perché nel frattempo la colonna si era fermata più tempo del previsto, e  le persone si erano messe a chiacchierare, discutere, giocare a carte...
Al suo ritorno, a dicembre, ci aveva portato vari cimeli della guerra, tra cui un grande bossolo vietnamita, sandali fatti con i copertoni di un carro, e un bellissimo pettinino a forma di aereo fatto con i resti di un B52 abbattuto dai vietnamiti, che purtroppo mi è poi stato rubato in Mozambico. 

Molto interessanti anche i racconti di Renzo dalla Cambogia nel 1979. Arrivato a Phnom Penh da Saigon con un piccolo Antonov, circa venti giorni dopo la sua caduta per mano vietnamita, aveva trovato una città abbandonata e maleodorante. Stranamente vide un’edicola con giornali e riviste ben esposte, salvo poi accorgersi che datavano più di tre anni prima! La questione cambogiana e l’intervento vietnamita erano l’oggetto di grandi discussioni anche in famiglia; nostra madre aveva scritto un bell’articolo intitolato "Cosa è andato storto nel nostro internazionalismo”. 
In una lettera del 1979 Renzo carinamente mi scrive  "Innanzitutto complimenti perché vi siete liberati di Amin. Come volevasi dimostrare: ad ogni fratello un tiranno da cacciare (fa anche rima)”. E poi mi chiede come mai i mozambicani "a gennaio avevano posto un sacco di questioni di principio perché i poveri cambogiani erano stati liberati da quei folli dei khmer rossi ed ora invece si sono comportati come un qualsiasi vietnamita”. E aggiunge, secondo me in anticipo sui tempi "Anche qui ci sono i custodi dei principi che mostrano tutta la loro schizofrenia. Tu cosa ne pensi? Esistono ancora dei metodi a cui occorre attenersi nelle relazioni internazionali? Oppure la complessità del mondo è ormai tale che è necessario trovare nuove forme? Ma quali? Siamo tutti convinti che un solo giorno in più di potere di Amin o Pol Pot sarebbe stata un’ulteriore tragedia per gli ugandesi e per i cambogiani. E allora esiste ancora una validità universale del principio della non ingerenza?”.

La lettera è dell’estate del 1972, ed è qui che racconta del suo incontro con Jane Fonda, episodio che diventò poi una leggenda familiare.
L’articolo di riflessione più globale sul Vietnam è stato pubblicato sull’Unità del 4 dicembre 1994.
Bettina Foa