Spesso nei tuoi scritti ti soffermi sull’importanza del “punto di vista”...
Sì, il punto di vista che si assume è sempre fondamentale. Ne Le labbra del tempo, c’è un testo intitolato proprio in questo modo, “Punti di vista”: in qualche punto del tempo, oltre il tempo, il mondo era grigio; grazie agli indios Ishir, che rubarono il colore agli dei, adesso il mondo risplende e i colori del mondo ardono negli occhi che li guardano. Qualche tempo fa, Ticio Escobar, un mio amico paraguaiano, accompagnò un’équipe televisiva europea che voleva filmare scene di vita quotidiana di questi indigeni; una bambina indigena inseguiva il regista dell’équipe, ombra silenziosa appiccicata al suo corpo, lo guardava fisso nel volto, molto da vicino, come se volesse entrare nei suoi strani occhi azzurri. Il regista si avvalse dell’intercessione di Ticio Escobar che conosceva la bambina e capiva la sua lingua e lei confessò: “Voglio sapere di che colore lui vede le cose”, al che il regista sorrise: “Del tuo stesso colore”, “E che ne sa lei di che colore vedo io le cose?”.
Tutto questo ci pone di fronte al tema della diversità...
La diversità passa per la diversità dei punti di vista possibili: dal punto di vista del sud l’estate del nord è inverno. E dal punto di vista di un verme un piatto di spaghetti è un’orgia; dove gli indù vedono una vacca sacra altri vedono un grande hamburger. Dal punto di vista di Ippocrate, Galeno, Maimonide e Paracelso esisteva una malattia chiamata indigestione, ma non esisteva una malattia chiamata fame. Dal punto di vista del gufo, del pipistrello, del bohémien e del ladro il crepuscolo è l’ora della colazione. La pioggia è una maledizione per il turista e una benedizione per il contadino. Dal punto di vista dell’autoctono è il turista a essere pittoresco. Dal punto di vista degli indios delle isole caraibiche Cristoforo Colombo, con il suo copricapo di piume e il suo mantello di velluto rosso, era un pappagallo di dimensioni mai viste...
La diversità oggi pare messa sotto attacco dalla capacità omogeneizzante della globalizzazione. Che ne è allora delle culture, delle identità?
In questa civiltà che confonde la quantità con la qualità, confonde l’obesità con la buona alimentazione, trionfa la spazzatura travestita da cibo, l’industria sta colonizzando i palati del mondo e sta distruggendo le tradizioni della cucina locale, le abitudini della buona cucina che vengono da lontano. In alcuni paesi hanno alle spalle millenni di raffinamento e diversità e sono un patrimonio collettivo e si trovano nelle case di tutti e non solo sulla tavola dei ricchi. Queste tradizioni, questi segni di identità culturale, queste feste della vita vengono schiacciate in modo fulmineo dalle imposizioni del sapore chimico e unico. La globalizzazione viola con successo il diritto all’autodeterminazione della cucina, sacro diritto perché la bocca è una delle porte dell’anima.
Cosa pensi del modo occidentale, oggi, di pensare all’immigrazione?
Anche qui è una questione di punti di vista... Rispondo ricorrendo a un’opera d’immaginazione storica: la storia come avrebbe potuto essere.... Cristoforo Colombo non poté scoprire l’America perché non aveva il visto e non aveva neppure il passaporto.
A Pedro Alvares Cabral fu proibito di sbarcare in Brasile perché avrebbe potuto portare il vaiolo, il morbillo, l’influenza e altre pestilenze sconosciute del paese; Hernàn Cortés e Francisco Pizarro rimasero con la voglia di conquistare il Messico e il Perù perché non avevano il permesso di lavoro; Pedro de Alvarado fu respinto in Guatemala; Pedro de Valdivia non potè entrare in Cile perché non aveva dietro la certificazione di buona condotta rilasciata dalla polizia; i pellegrini del Mayflower furono restituiti al mare perché sulle coste del Massachusetts non c’erano quote aperte di immigrazione...
Io penso sempre che per capire una situazione bisogna fare questo esercizio del punto di vista. Così col tema dell’emigrazione occorrerebbe chiedersi che cosa sarebbe ...[continua]
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