Maria Gigliola Toniollo è responsabile del Settore Nuovi Diritti Cgil Nazionale.

Partiamo dalla tua esperienza. Come è nato l’impegno per la tutela dei diritti dei transessuali?
Nell’ambito del settore Nuovi Diritti Cgil Nazionale avevamo iniziato a occuparci della discriminazione degli omosessuali e delle lesbiche sul posto di lavoro. Proprio nel corso di questa vertenza ci è capitato di notare che c’erano persone transessuali che non sapevano a chi rivolgersi per i loro problemi. Per avere delle informazioni andavano in discoteche e circoli gay .
Se da un lato c’era una sorta di abbandono, dall’altro prevaleva un eccesso di informazioni sbagliate e stereotipate: nelle immediate vicinanze della parola transessuale, sempre pronunciata al maschile, c’era spesso la prostituzione come se fossero sinonimi.
Abbiamo allora preso contatto con le associazioni: all’epoca ne esisteva una sola, vale a dire il Movimento Italiano Transessuali, ora Movimento di Identità Transessuale. Dopo aver parlato con un po’ di persone abbiamo così costituito dei gruppi di lavoro per capire la situazione, in particolare quali fossero le necessità e dove intervenire. I gruppi erano molto numerosi e animati, composti da persone che avevano compreso l’autenticità di un nostro interesse che certo non dipendeva da motivi di opportunità.
Insomma, le sale della Cgil si sono presto affollate di transessuali, molto più spesso transessuali “MtoF” (vale a dire di transessuali che compivano il passaggio dall’originario sesso maschile a quello, desiderato, femminile). All’epoca c’era un certo amore per una visibilità alquanto provocatoria, che successivamente si è molto ridimensionato. Una tale visibilità aveva causato più di un interrogativo in alcuni compagni della Cgil: io con un po’ di malizia facevo in modo che le persone transessuali che partecipavano ai nostri gruppi avessero accesso a tutto il palazzo… Non avrei mai fatto un rinfresco al chiuso di una sala riunioni, come spesso accade: si utilizzava la mensa in modo che fossero il più visibili possibile. C’era bisogno di fotocopie? Andavano loro in tipografia… Sia per rispetto a loro, sia per un fatto di coerenza: la sinistra ed i compagni non sono abituati a spaziare con la fantasia e male non faceva che avessero un rapporto con la realtà. Da quelle riunioni, molto vissute e sofferte, emerse un insieme di esigenze. La prima era quella di uscire dallo stereotipo e dalla solitudine perché le persone non sapevano dove andare né a chi chiedere un sostegno rispetto alla propria condizione. Spesso non conoscevano nemmeno il motivo del disagio e della disperazione che provavano, vittime della non comprensione di se stessi come della famiglia, della scuola. Infine, a questi problemi di fondo, si aggiungevano quelli legati al lavoro.
L’obiettivo era quello di diffondere la percezione di una vita quotidiana della persona transessuale, fatta di scuola, lavoro, vita di coppia, che non fosse legata a fatti che in realtà avevano ben poco a che fare con il transessualismo. Infatti, quando introduciamo la questione prostituzione dovremmo fare molte distinzioni e magari parlare piuttosto di travestitismo.
Un impegno di visibilità e di dignità in un quadro legislativo complicato. Quali sono le difficoltà della legge italiana? Le nuove teorie transgender sviluppatesi in America nel corso degli ultimi decenni hanno avuto un qualche impatto?
L’esigenza di uscire dall’isolamento, dalla solitudine e dall’equivoco determinava anche la necessità di un riconoscimento legislativo. La legge italiana, molto sofferta e combattuta, risale a circa 25 anni fa. La legge 164 regolamentava principalmente le situazioni che si erano create con gli interventi chirurgici realizzati all’estero a partire dall’esempio notissimo di Casablanca. In Italia, infatti, l’intervento per il cambiamento di sesso era considerato una mutilazione di organi. La legge assolse così al bisogno di sanare queste situazioni e mettere un po’ d’ordine, stabilendo un sistema binario di riferimento uomo-donna che non desse possibilità di scappatoie. Prima della legge, infatti, le persone sottopostesi ad intervento chirurgico all’estero, una volta tornate in Italia, non avevano nessun riconoscimento, nessuna accoglienza medica, farmaceutica e chirurgica. Tutta la vicenda si consumava soprattutto in questa fase piuttosto speculativa del turismo chirurgico.
La legge, insomma, passò anche perché non portava avanti alcun messaggio r ...[continua]

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