Sami Adwan, palestinese, docente di Pedagogia all’università di Betlemme, co-direttore del Prime (Peace Research Institute in the Middle East), con Dan Bar-On, docente israeliano, è ora impegnato in un progetto di “Sharing History” volto alla stesura di un manuale per studenti con la versione israeliana e la versione palestinese di alcuni degli eventi più significativi della storia dei due popoli

Nell’ambito del Prime, tu hai rapporti di collaborazione e anche di amicizia con diversi israeliani. Da questo osservatorio come vedi il futuro? Tra israeliani e palestinesi si è ormai creato un baratro incolmabile oppure ci sono delle speranze per una futura convivenza?
Premetto che scegliere di lavorare con gli israeliani con il conflitto ancora in corso, quindi in tempo di guerra, è una grossa sfida: può esporre a grande frustrazione e scoramento, ma a volte procura anche un senso di grande speranza, che ti fa credere che ci saranno dei cambiamenti, dei miglioramenti nell’atteggiamento degli israeliani verso i palestinesi, la loro causa, le loro sofferenze.
Tuttavia, date le diverse, e a volte opposte, aspettative -gli israeliani considerano questa la “Terra promessa”, la terra “liberata”, per i palestinesi è territorio “occupato”- si tratta di un percorso che non è semplice né lineare. A volte dobbiamo gestire non solo l’accordo o il disaccordo tra di noi, ma anche l’evoluzione sul terreno, che evidentemente influisce sul nostro lavoro quotidiano, sui rapporti con le nostre comunità, anche con le nostre famiglie.
Dan e io concordiamo sul fatto che l’unica soluzione siano due stati indipendenti e sovrani, e sicuri, in cui vivere gli uni accanto agli altri. Allora il nostro impegno è inteso anche a preparare il terreno per quando questo accadrà. Ovviamente cambiare la testa di israeliani e palestinesi non è un qualcosa che possa accadere in uno o due giorni. Per questo è importante lavorare dal basso, privilegiando quanto già accade sul terreno, perché solo così si può contribuire a cambiare lentamente, gradualmente, l’immagine che abbiamo dell’altro.
Una reale convivenza però implica anche un processo di “cura” delle due comunità. I palestinesi hanno bisogno di superare un trauma, di elaborare un lutto; più in generale si tratta di avere lo spazio e il tempo per esprimere le nostre emozioni; sotto l’occupazione questo ci è stato impedito, si trattasse di dolore o di gioia: ai palestinesi è stato imposto di reprimere le proprie emozioni, di tenersi tutto dentro.
La nostra oggi è davvero una società traumatizzata. Urge un aiuto psicologico diffuso, con un’assistenza specifica per la gestione di una fase post-traumatica. E sfortunatamente ne abbiamo bisogno tutti, non solo i bambini, i giovani o i vecchi.
Venendo al piano politico, è evidente che esistono valutazioni opposte sulla situazione: per gli israeliani questa è la Terra Promessa; per i palestinesi questa è la Palestina. Però oggi questa situazione estremizzata dovrebbe essere stata ridimensionata, ossia messa in discussione e chiarita, grazie al reciproco riconoscimento sancito a Oslo nel 1993, quando i palestinesi hanno accettato i confini del 1967.
Questa situazione è scaturita dal compromesso raggiunto da entrambe le parti a livello politico. Tuttavia, negli ultimi dieci anni noi palestinesi abbiamo assistito a un governo israeliano, allora guidato dal Labour e oggi dal Likud, che dopo la firma degli accordi di Oslo ha continuato a creare insediamenti, a confiscare la nostra terra, ponendo le nostre città sotto assedio e limitando la nostra libertà.
I palestinesi avevano iniziato a impegnarsi duramente per la ricostruzione delle proprie infrastrutture, per la costruzione di strade, scuole, ospedali, ecc. Speravamo che il processo potesse evolvere positivamente secondo quanto siglato in quegli accordi.
Quando però la popolazione ha realizzato che niente stava cambiando, e parlo della gente comune non dell’Anp, questo ha creato un grave senso di frustrazione. La stessa seconda Intifada infatti è partita come moto spontaneo, non è stata promossa dall’Anp; l’Anp si è limitato a seguire l’evolversi della protesta, anche in posizione spesso ambigua.
Le aspettative nate a Oslo sono quindi un altro nodo non trascurabile rispetto alle prospettive future. Le due popolazioni infatti, nonostante le contraddizioni, avevano creduto in questo processo di pace.
Poi c’è stato lo choc dell’assassinio di Rabin: per gli israeliani è stato ...[continua]

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