Nicola Borsella, ingegnere, dopo aver svolto un’esperienza in Eritrea nell’ambito di progetti di ricostruzione di scuole, scavo di pozzi, riabilitazione di centri di formazione e di piccole infrastrutture, dal 2000 lavora come cooperante in Bosnia Erzegovina.

Dal 2000 lavori in Bosnia come consulente tecnico in progetti di ricostruzione delle case. Quali sono i problemi legati al rientro delle famiglie a suo tempo cacciate?
Come progetto europeo di ricostruzione ci stiamo occupando di tutto il Nord est della Bosnia e quindi il cantone di Tuzla, la municipalità di Kladanj e, in Repubblica Srpska, le municipalità di Zvornik, Vlasenica e Milici.
I problemi sono sostanzialmente legati al fatto che è ormai sempre più evidente che la sostenibilità del rientro non è garantita dal 5% del budget attualmente allocato per misure di sostegno economico. Insomma, le famiglie rientrano sì in una casa ricostruita, però dopo non sanno di cosa vivere. E non è certo distribuendo due polli e una gallina o una mucca che questa gente ha la possibilità di garantirsi un futuro nelle zone di origine. Va detto che qui parliamo principalmente di zone rurali, piccoli villaggi, dove magari rientra circa un terzo, o il 10% della popolazione, dove quindi ricominciare una vita normale è decisamente difficile.
Di fatto poi questi progetti mettono in luce una contraddizione già insita negli accordi di Dayton del ‘95, che da un lato hanno riconosciuto lo status quo della separazione etnica e dall’altro hanno riconosciuto il diritto delle famiglie di poter rientrare nelle zone da cui sono state cacciate.
Questo significa che la situazione si è subito rivelata, come prevedibile, abbastanza problematica, soprattutto perché per un musulmano rientrare nella Repubblica Srpska significa tornare a vivere in zone dove la propria etnia non è rappresentata a livello di municipalità, quindi in un ambiente non particolarmente favorevole.
Si sono verificati episodi di ostruzionismo?
Oggi i processi di rientro vengono abbastanza tollerati. All’inizio l’ostruzionismo si concretizzava principalmente impedendo il trasporto di materiali; questo in particolare da parte delle persone che occupavano abusivamente queste case o che vivevano attorno a case in via di ricostruzione. Oltre ai furti di materiale per la ricostruzione durante la notte, abbiamo assistito anche a episodi di violenza, con minacce fisiche, arrivando a risse, con persone costrette a recarsi in ospedale per le percosse subite. Oggi questo non avviene più, nel senso che l’ostruzionismo si applica con modalità se vuoi più subdole. In queste zone, infatti, a livello di municipalità si verificano parecchi casi di lampante discriminazione, per cui il musulmano che rientra, per ottenere i documenti, deve aspettare più degli altri, se non ha alle spalle un’organizzazione umanitaria che magari intercede facendo pressioni tramite gli organismi internazionali.
Se poi una persona è particolarmente intraprendente e riesce ad accedere a fondi per poter avviare un’attività commerciale o produttiva, questo viene vissuto come una minaccia da parte dei businessman del posto, così si assiste all’impedimento nel rilascio dei permessi necessari, oppure a ispezioni massacranti contro l’imprenditore.
Di fatto poi se si tratta di mettere i bastoni tra la ruote a qualche mafiosetto locale si assiste a un ritiro, a un passo indietro, da parte delle varie istituzioni internazionali.
Voi, in questi casi, come vi muovete?
Premetto che questo intervento non rientra nel nostro compito, nel senso che noi ci dovremmo limitare a quanto stabilito dal nostro contratto, ossia a ricostruire e distribuire piccoli input all’attività economica (che poi si riducono di solito a distribuzione di animali o di piccoli fondi). Noi però, come Ong, pensiamo di avere il dovere di andare oltre, ritagliandoci gli spazi per poter agire al di là di quello che è strettamente il ruolo definito dal contratto. Così è capitato di intercedere per conto di piccoli imprenditori presso le istituzioni locali piuttosto che presso gli organismi internazionali per poter facilitare certi processi e dare un po’ un esempio, una spinta. In realtà questo dovrebbe essere di per sé garantito, invece per chi non ha la tutela di un’Ong, e quindi, per interposta persona, il potere di andare a bussare alla porta ed essere ricevuti, questo rappresenta ancora un grave ostacolo. Sembra che l’idea prevalente sia di mantenere uno status quo, una re ...[continua]

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