Suelma Beirouk, fuggita dal Sahara Occidentale nel 1975, all’età di 16 anni, oggi vive nel campo “27 Febbraio” con quattro dei suoi figli. E’ responsabile del Dipartimento di Cooperazione internazionale dell’Unione delle Donne Saharawi .

Allora vivevamo nel Sahara Occidentale, a El Aaiún. Per i tre anni precedenti, dal ’73 al ’75 c’era stata una lotta pacifica contro la Spagna e il colonialismo spagnolo, con manifestazioni di donne, studenti; io partecipavo con molte altre donne.
Quando però la Spagna decise di ritirarsi dalla Sahara, senza che noi lo sapessimo, fece un accordo per lasciare il Sahara al Marocco: si ritiravano gli spagnoli ed entravano i marocchini.
Io vivevo a El Aaiún con la mia famiglia, con mio marito, vicino ai miei genitori.
Avevamo una casa normale, non nel deserto, una casa in una città. Quel pomeriggio mio figlio era con mia madre, perché io lavoravo; proprio al momento di andarlo a prendere si diffuse la voce che i marocchini stavano entrando a El Aaiún; allora con amici e conoscenti, ci siamo tutti messi a scappare; era il caos totale, una scena apocalittica: madri che cercavano i loro bambini, bambini da soli disperati: una situazione terribile.
Ho subito detto a mia madre: “Prendo il bambino e cerco di uscire da El Aaiún, torno domani”. Mia madre però non voleva: “No, lasciami qui il bambino, se esci dalla città, non sai cosa può accadere…”. Io però non ne ho voluto sapere, ho preso il bambino col biberon e sono partita. Ricordo che avevo il bambino per mano e nell’altra il suo biberon…
E così, con alcuni amici, me ne sono andata fuori da El Aaiún.
Quella notte stessa i soldati marocchini sono entrati a El Aaiún e hanno occupato la città; hanno setacciato le case per catturare la gente di cui avevano i nomi. Io ho trovato riparo in una baracca appena fuori città, e da lassù abbiamo visto i marocchini entrare, cercare la gente dappertutto. Lì mi sono ricongiunta a mio marito, anch’egli era fuggito.
L’esercito ha occupato l’intera città nel giro di poche ore. Abbiamo capito immediatamente che tornare sarebbe stato impossibile. La situazione si è subito rivelata drammatica: io con un bambino, e senza assolutamente niente. Avevo una borsa con il latte, un biberon e nient’altro né per me né per lui. Nella confusione della fuga, la famiglia si era dispersa. Mio fratello Li, il maggiore, era fuggito anche lui la stessa notte però in un’altra direzione, senza sapere che noi avevamo fatto altrettanto. Nessuno sapeva niente degli altri. Anche lui aveva dovuto discutere con mia madre, che voleva tenere la sua bambina. Ma lui gliel’ha lasciata.
Mia madre certo non pensava che non ci avrebbe più visto. Si trattava di nascondersi per un po’ e poi tornare.
Khatry, il nostro fratello più piccolo, che aveva solo 10 anni, anche lui era fuggito, da solo. L’abbiamo saputo dopo: era salito in un camion con dell’altra gente, tutti in fuga da El Aaiún…

Moltissime famiglie si sono riunite qui, in questo campo, dopo mesi, anche dopo un anno.
Ognuno scappava sperando in qualche modo di ritrovare il resto della famiglia fuori da El Aaiún…
Alla fine siamo arrivati in mezzo al deserto. Erano giorni terribili. Tristi: si vedevano queste madri tutto il giorno in pena perché non sapevano dove fossero finiti i loro figli; oppure questi bambini, anche molto piccoli, lì da soli… o questi uomini che chiedevano notizie di moglie e figli… immagini veramente orribili!
Solo chi l’ha vissuto può capire di cosa parlo. Subito hanno iniziato a bombardare in varie località. Hanno proprio iniziato a bombardare con gli aerei. Il Fronte del Polisario ha allora cominciato a richiamare gli ex combattenti, si usavano i mezzi privati; in un camion venivano fatte salire anche 40-50 persone per portarle altrove, in alcuni accampamenti, come questo.
E’ stato allora che sono stati costruiti questi campi in territorio algerino, appena al di là del confine. Un po’ alla volta si è iniziato a portare la gente qui. Si è pensato di organizzare la popolazione in quattro campi. Io ho subito iniziato a lavorare a Rabouni, il primo campo allestito, coordinavo un’organizzazione di donne; si cercava di organizzare l’ospitalità, di distribuire il poco cibo a disposizione, con la Mezzaluna algerina…
C’erano delle tende, ma non come quella che abbiamo oggi; erano tende molto piccole, quelle che avrete visto per i profughi. Sono proprio piccole; ecco, in queste tende si raccoglievano anche dieci persone…
Nel giro di ...[continua]

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