Lo scorso agosto, si è tenuto a Gerusalemme l’ultimo incontro di una serie di seminari sui testi scolastici israeliani e palestinesi, che hanno coinvolto un gruppo di insegnanti palestinesi di storia e geografia, provenienti da Hebron, Betlemme e Gerusalemme Est, e un gruppo di insegnanti israeliani. Dan Bar-On, israeliano, e Sami Adwan, palestinese, docenti universitari e co-direttori del Prime (Peace Research Institute for the Middle East) lo scorso anno hanno ricevuto il Premio Alexander Langer.
 
 Come è nata l’idea di questo progetto sui testi scolastici?
Dan. Premetto che Sami, nell’ambito dei suoi studi, già aveva condotto un’indagine sui testi scolastici israeliani e palestinesi. Da tempo nei media israeliani è in corso un’opera di demonizzazione dei libri palestinesi, casomai senza sapere che molti di questi libri in realtà sono forniti da Egitto e Giordania. Lo stesso accade in ambito palestinese. Allora, a uno dei nostri incontri è emersa questa sgradevole sensazione di doversi continuamente difendere. E così è nata l’idea di provare a produrre un testo assieme.
Tuttavia ci è stato subito chiaro che in questa fase è troppo presto per pensare che israeliani e palestinesi possano puntare a un unico testo.
Forse però è arrivato il tempo almeno di iniziare a riconoscere anche l’altra narrazione.
Qualche giorno fa eravamo assieme a un seminario nell’Irlanda del nord e qualcuno ha usato a mio avviso un’espressione molto appropriata: siamo impegnati a "disarmare la storia”. Ecco, credo sia una bella immagine. Noi vogliamo che la storia non sia una fonte di guerra; siamo impegnati su questo obiettivo. Come fare? Abbiamo intrapreso molte strade. E allo stato attuale non sappiamo dove questo sviluppo ci porterà.
Fin dall’inizio abbiamo individuato negli insegnanti degli interlocutori imprescindibili per il loro ruolo sul piano educativo, quindi li abbiamo coinvolti per creare un network che permettesse di lavorare su questo tema, assieme agli insegnanti dell’altro versante.
Certamente, siamo una sorta di pionieri; si tratta di una vera e propria invenzione, un esperimento… Tra l’altro stiamo lavorando senza alcun accordo col Ministero dell’Educazione di Israele, quindi fuori da tutte le istituzioni statali. Ma siamo convinti che in tre anni riusciremo e realizzare qualcosa che possa influenzare positivamente l’ambito della memoria collettiva delle due comunità.
Abbiamo già verificato che molti insegnanti, sia israeliani che palestinesi, sono interessati a questo progetto; ci stanno chiedendo di prendere visione del progetto e se sarà possibile utilizzarlo nelle loro classi. Quindi c’è un interesse diffuso.
Sami. Fin da quando abbiamo creato il Prime, l’obiettivo è stato quello di portare a una maggiore comprensione da parte delle due comunità, e di sbarazzarsi degli stereotipi, e dei sentimenti ostili.
Abbiamo assunto questo compito svolgendo varie ricerche, ma anche attraverso la realizzazione di interventi concreti. In una prima conferenza sui testi scolastici, abbiamo semplicemente toccato la questione, in modo molto prudente, proprio per vedere come approcciarla. Abbiamo successivamente invitato palestinesi e israeliani impegnati in quest’area per condividere esperienze e considerazioni.
I testi scolastici sono i depositari del sapere legittimato, della conoscenza rispetto alla propria nazione; in una situazione di conflitto, scatta però un particolare meccanismo per cui solo la mia narrazione è quella legittima, quella vera, quella giusta. L’altra narrazione, se viene presentata, è sempre additata in senso negativo, e in ultima istanza esclusivamente per giustificare la propria. Basta guardare i testi scolastici israeliani e palestinesi. Io appunto ho fatto una ricerca: partono da punti di vista diversi, spesso assolutamente opposti, anche utilizzando una terminologia differenziata. Così i loro eroi sono i nostri mostri; i loro mostri sono i nostri eroi. E’ questa la situazione. Come accennava Dan, anche nel nostro sistema scolastico, il ministro dell’educazione ha la supervisione rispetto all’approvazione dei testi scolastici. Noi infatti puntiamo piuttosto a un booklet, così da non incorrere in equivoci rispetto alle competenze del ministero. Un booklet che possa essere introdotto nelle scuole assieme ai testi esistenti. Questo è un punto importante: allo stato attuale non possiamo neanche pensare di sostituire i testi in uso.
Tra l’altro noi non pensiamo a questo booklet come a un risultato definitivo. Il processo e le dinamiche che gli insegnanti sperimenteranno sono forieri di ulteriori indicazioni. Gli stessi insegnanti infatti sono stati formati nell’ambito di una cultura volta a difendersi e quindi a boicottare la narrazione della controparte, per cui loro stessi sono coinvolti in prima persona in questo esperimento. E’ un processo dinamico e davvero una sorta di sfida. Abbiamo stabilito di introdurre questo booklet nel 9° e 10° livello. La fascia d’età, 14-15 anni, è stata imposta anche dalla considerazione che tra i palestinesi raramente i ragazzi proseguono i loro studi oltre quel livello; ogni insegnante illustrerà il progetto a circa due classi, per cui avremo in tutto circa 24 classi, palestinesi e israeliane, di circa 30 persone mediamente. Insomma parliamo complessivamente di oltre 700 ragazzi e ragazze che intraprenderanno questo percorso. Come dicevo, si tratta di un processo di apprendimento a più livelli, infatti tra le due narrazioni abbiamo progettato di lasciare uno spazio bianco in cui gli studenti potranno inserire le loro riflessioni. Non si tratta solo di produrre dei testi e presentarli, ma anche di ottenere dei feedback, per poi procedere con continui riassestamenti e revisioni.
Per cui nel booklet ci saranno le due narrazioni parallele e al centro uno spazio bianco…
Dan. Sì, l’idea è questa. Abbiamo avuto tre seminari, un primo incontro a marzo, poco prima dei terribili eventi di Jenin e l’invasione; il secondo in pieno coprifuoco, sempre a Gerusalemme; ogni volta ai palestinesi il permesso viene accordato solo qualche giorno prima della data stabilita, e regolarmente bisogna andare a prenderli per assicurarsi non ci siano ulteriori intoppi. Insomma, è sempre estremamente complicato. Ma l’aspetto interessante è che gli insegnanti si sono dimostrati sempre molto tenaci, mostrando una grande volontà di cambiare le cose. Abbiamo sentito di essere sostenuti in questa impresa, di non essere soli; e abbiamo sentito di far parte di un processo che di fatto si è autoalimentato, noi l’abbiamo solo avviato.
Tra i due gruppi come si sono evoluti i rapporti? Sono anche nate delle amicizie?
Dan. Abbiamo investito molto tempo alla conoscenza reciproca. Una prima giornata e mezza è stata dedicata all’ascolto delle reciproche storie personali. Poi un primo e un secondo seminario. E’ stato difficile, certo, ascoltare le storie degli altri, ma è stato anche molto coinvolgente. Noi del resto eravamo qui per ascoltare e imparare, non solo per raccontare.
Con Sami avevamo già lavorato con gruppi misti, israeliani e palestinesi, in altri ambiti, non era una prima volta, quindi eravamo preparati anche a cadute, a fallimenti, ma ho l’impressione che questo gruppo funzioni, che loro in ultima istanza si piacciano, certo per quanto possibile.
Sami. Come diceva Dan, non è stata un’impresa facile, tuttavia c’è stata dedizione e investimento; questa gente davvero vuole provarci ed è anche disposta a passare attraverso il dolore e la fatica dei racconti e dell’ascolto dell’altra storia. E’ una sfida appassionante; insomma vogliono fare qualcosa, vogliono partecipare…
Volendo ricordare Yusif (un insegnante palestinese coinvolto nel progetto, scomparso recentemente), lui era veramente una persona dinamica, sia nell’ambito del gruppo palestinese, ma anche in relazione all’altro gruppo. Sempre si sforzava di esprimere il proprio punto di vista, le proprie idee, con dolore, ma anche con coraggio.
Dan. Confliggeva continuamente con il gruppo israeliano; discuteva in particolare con due donne cercando di difendere strenuamente e tenacemente la propria versione.
Sami. Ora, ascoltare le altre storie, l’altra narrazione, per la prima volta, è davvero impegnativo, una sfida. Richiede molte energie e dedizione. E poi c’è la paura di sentirsi dire: "non è vero, non è così, questa è pura propaganda”. Sono quindi sicuro che questo esperimento rafforzerà molto la nostra esperienza su come approcciare il futuro. Non possiamo aspirare a creare una sola narrazione, che includa in modo soddisfacente sia quella israeliana che quella palestinese. Però con questa ipotesi di lavoro possiamo costringerci a riconoscere anche la narrazione dell’altro, se non emotivamente, almeno sul piano della conoscenza. E questo è un passo importante; è questo il nostro obiettivo. Possiamo anche cercare di individuare le similitudini tra i due racconti, e capire cosa si potrà costruire a partire da tali affinità. Ma, ripeto, non siamo orientati a una narrazione unica, questo non ci interessa oggi.
Dan. Ogni cultura si deve intanto sentire "sicura” della propria narrazione. Questa è la condizione; per questo ci devono essere due narrazioni separate. Se sono troppo vicine non funziona.
Infatti voi sollecitate gli insegnanti a stare attenti a non essere né troppo parziali né troppo compiacenti con l’altra versione. In questo senso il feedback degli studenti è un buon test…
Dan. Come dicevo, bisogna che entrambe le parti si sentano a proprio agio con la loro narrazione. Se si sentono sicuri, poi sarà possibile cominciare a interloquire con la versione dell’altro. Per esempio durante la prima fase, qualcuno ha denunciato come la versione palestinese suonasse talvolta propaganda, ma immediatamente si è chiesto: "Non è che forse anche il nostro racconto suona a loro propaganda?”. Perché è vero, è proprio così. Ma va bene, basta riconoscerlo, sono due versioni-propaganda. E da lì si può partire per spiegare e giustificare la propria storia… Ovviamente poi ognuno ha il suo punto di vista sulla storia dell’altro. E io credo che se ci saranno degli studenti che alla fine del percorso saranno capaci di rispettare la narrazione dell’altro sarà già un grande successo. Certo non so quanto questo influirà, ma è comunque qualcosa, perché allo stato attuale ci troviamo in una situazione in cui davvero ciascuna comunità non sa nulla dell’altra, e si limita a demonizzarla e delegittimarla. E niente di buono può venire da un tale approccio.
Avete individuato alcuni episodi considerati cruciali. In questa prima fase: il mandato britannico, il ’48 e l’Intifada. Com’è avvenuta la scelta?
Sami. Per la verità non abbiamo scelto i temi. Avremmo potuto farlo, ma abbiamo preferito che emergessero da un processo in cui gli insegnanti fossero coinvolti fin dall’inizio. Il primo giorno infatti abbiamo diviso i partecipanti in tre gruppi; ciascun gruppo era composto da due insegnanti palestinesi, due israeliani e due operatori internazionali. Hanno innanzitutto stilato una lista degli avvenimenti che consideravano più rilevanti e importanti, di cui avrebbero voluto discutere. Dovevano essere al massimo cinque.
Poi ci siamo ritrovati assieme e ognuno ha proposto i suoi cinque; da lì siamo arrivati a circa 15 date condivise; alcune erano comuni a più gruppi. A quel punto abbiamo chiesto loro di tornare ai propri gruppi e di sceglierne uno solo tra i cinque iniziali. Anche perché lavorare su questi eventi è davvero un impegno molto gravoso. Quindi ne hanno scelto uno. Quando sono di nuovo tornati al gruppo, è iniziata la discussione su questi eventi; e fin dall’inizio ci siamo resi conto che anche sulla definizione delle varie periodizzazioni, la data d’inizio, quella conclusiva, c’erano già delle versioni diverse; anche questo è un dato rilevante nelle rispettive narrazioni. Successivamente sia i palestinesi che gli israeliani si sono riuniti in due gruppi omogenei per nazionalità, si sono concentrati sugli eventi scelti e hanno iniziato a redigerne un racconto. Quindi il gruppo israeliano, ad esempio, ha iniziato a scrivere la storia della dichiarazione di Balfour, e il gruppo palestinese pure.
L’ultima giornata è stata dedicata a uno scambio tra le due versioni dei tre eventi scelti dopo che entrambe erano state tradotte per gli altri. Per cui la narrazione palestinese era stata tradotta in ebraico e quella israeliana in arabo. In conclusione ognuno ha letto nella propria lingua la versione dell’altro. E posso assicurarti che vederla scritta e leggerla, beh, è emotivamente impegnativo. Ha un effetto molto più potente che il semplice sentirne parlare, come già era avvenuto nel precedente seminario.
Questo tra l’altro permette anche di affrontare l’aspetto pedagogico, ossia di penetrare il testo anche per verificarne il livello di comprensibilità per dei ragazzi, per capire se occorrono ulteriori spiegazioni, chiarimenti su nodi problematici. Oggi ad esempio è emersa la necessità di un glossario per spiegare la terminologia prettamente sionista o certe espressioni con connotazioni negative. Cercheremo ora di raccogliere tutti i commenti venuti da entrambe le parti così da avere il booklet pronto in entrambe le lingue entro la fine dell’anno.
Dopodiché abbiamo in programma di ripetere lo stesso lavoro con la narrazione di altri eventi.
Dan. Bisogna considerare che gli insegnanti nello svolgere questo lavoro si muovono continuamente tra la dimensione nazionale e quella bi-nazionale, perché lavorano prima nell’ambito del proprio gruppo e poi si confrontano con l’altro…
Sami. Ma c’è anche una sorta di circolarità, perché dal momento di confronto "bi-nazionale” poi ciascuno porta delle nuove sollecitazioni al proprio gruppo. Ora siamo anche curiosi di rilevare quali saranno le reazioni degli studenti e dei loro genitori, non solo quelle degli insegnanti.
Abbiamo iniziato a pensare a che immagine mettere nella copertina. Dan aveva proposto le due bandiere, poi si è convenuto che forse avrebbe avuto un impatto troppo forte: magari i genitori, o le due comunità non avrebbero apprezzato; sono elementi con connotati simbolici troppo forti. Così abbiamo pensato a due alberi, due ulivi, i cui rami si intrecciano…
Dan. Certo poi bisognerà stare attenti che il numero dei rami sia equo…
Sami. Il fatto è che c’è una tale sensibilità rispetto a questi temi…
Dan. Questo davvero accomuna le due parti…
L’intero progetto è intrinsecamente legato al tema della memoria, sia individuale, che collettiva. Israele, come sappiamo, ha questo passato così pesante…
Dan. Ecco qui vedo una forte asimmetria tra le due comunità. La nostra comunità ha realizzato una costruzione assolutamente monolitica rispetto alla propria storia quando è arrivata qui. Che allora era necessaria, per unificare persone provenienti da tanti luoghi diversi e per darci un’identità. Credo che oggi, tuttavia, a parte i settori più religiosi o nazionalisti e gli ultimi arrivati, i russi, sia in atto una sorta di riesame della nostra storia, della nostra memoria. Trovo che tutto questo sia un processo fisiologico e necessario.
Qui il dato interessante è che l’Olocausto in realtà non è stato in origine un elemento costitutivo dell’identità di Israele; è entrato nel discorso collettivo intorno agli anni ’70 subendo nel tempo una sorta di enfasi crescente; c’è stato proprio un cambio di atteggiamento. Allora allo stato attuale io individuo una sorta di doppio e opposto movimento in Israele. Da un lato c’è Sharon che cerca di compattare la popolazione, anche strumentalizzando quella tragedia; dall’altro però è in corso una forma di decostruzione della memoria di questa comunità. Per cui noi ci troviamo presi tra queste due spinte opposte e contemporanee. E la gente è un po’ disorientata, non capisce cosa sta accadendo.
Da questo punto di vista la società palestinese è più omogenea e compatta, assomiglia più a noi nel ’48. Sono uniti e cercano di affrontare le difficoltà come un’unica entità; certo in realtà all’interno ci sono le varie tendenze ma all’esterno tendono a esprimersi come un’unica voce. E’ facile immaginare che in 20-30-40 anni, dopo che si sarà risolta la questione nazionale, anche i palestinesi passeranno attraverso lo stesso processo che stiamo vivendo noi. E sarà giusto così, perché è necessario.
Sami. Venendo alla storia palestinese, c’è da dire che noi non siamo stati in grado di condividere una memoria, di costruire una nostra storia; c’era sempre un impedimento politico: prima gli ottomani, poi gli inglesi, i giordani, oggi l’occupazione israeliana. Per cui non c’è stata una costruzione e una cristallizzazione di una nostra storia collettiva, anche se poi ogni singola comunità ha maturato una propria memoria, casomai anche solo familiare; ecco, tutti questi pezzi messi assieme costituiscono la nostra memoria.
Direi che non siamo riusciti a costruire una nostra storia collettiva almeno fino alla prima Intifada. Mi spiego: io vedo la prima Intifada anche come il primo tentativo doloroso dei palestinesi di esprimere la propria memoria. Era come giunto il momento di dire chi siamo e cosa vogliamo. Per me la prima Intifada ha avuto anche il significato di portare all’attenzione l’esistenza di una storia dolorosa, assieme al desidero di costruirsi un futuro; proprio la tensione verso il futuro chiedeva però che ci fosse innanzitutto una sorta di viaggio a ritroso per raccogliere i pezzi della propria storia e memoria.
Ed è vero: i palestinesi risultano evidentemente la parte oppressa, le vittime; per questo per molto tempo ascoltare le singole storie è stato sempre come sentire un’unica voce.
 Tuttavia dopo la firma degli accordi di Oslo, con la necessità di mettere in chiaro le proprie condizioni, con la nuova consapevolezza di cosa si vuole e di cosa invece risulta inaccettabile, era iniziato un approccio diverso, in cui anche le voci discordi stavano faticosamente ottenendo una loro legittimità.
Purtroppo con questa seconda Intifada siamo tornati indietro; oggi siamo di nuovo un’unica voce: siamo sottoposti a un’occupazione, soffriamo, siamo le vittime, vogliamo essere liberi...
 Invece io sono convinto che se riuscissimo a risolvere la questione nazionale, ad avere un nostro stato, sicuramente le cose cambierebbero e il livello del dibattito interno si alzerebbe, anche rispetto all’emergere di diverse narrazioni della nostra storia.
 In particolare, se parliamo dei profughi che vivono in Siria, o in Giordania, è evidente che loro hanno maturato una memoria diversa dai palestinesi che vivono nei territori occupati, e ancora dai palestinesi che vivono all’interno di Israele. Se mettiamo assieme tutte queste diverse esperienze emerge un paesaggio diversificato e articolato, pur sulla base di esperienze cruciali comuni. Purtroppo in questa fase ancora non è possibile.
Quello che mi sembra comunque importante oggi per i palestinesi, è sbarazzarsi di questa tendenza alla vittimizzazione.
Se posso parlare per me, io trovo intollerabile vivere con questa costante immagine di me quale vittima. Davvero talvolta è insopportabile, è troppo doloroso. Io non voglio essere, e non voglio vedermi, come una vittima. Voglio considerarmi una persona libera.
E’ vero, siamo stati vittime, però questo tipo di memoria collettiva, purtroppo dominante, questo modo di pensare non può portare ad alcun futuro né ad alcuna apertura agli altri, perché ci impedisce di vedere l’altra parte e di ascoltare la sua voce. E poi parliamo di una vita molto triste, e noi non vogliamo certo permanere in questa atmosfera cupa.
La storia dei palestinesi, come sappiamo, è una storia di grandi sofferenze, e tuttavia non possiamo fissarci esclusivamente su questo aspetto: la prospettiva di vedersi sempre e solo delle vittime è terribile e insopportabile per chiunque.